Bloccata a Napoli per lavoro, il primo giorno utile di vacanza si impone una missione epica: trovare un posto dove far svernare i bambini per qualche ora. Mio marito ed io ci mettiamo su Internet alla ricerca di un posto nuovo in cui portarli e ci si para subito all’orizzonte un probabile paradiso: il Parco degli Uccelli, a Giugliano, riserva naturale.
A convincerci è quanto scritto sul sito ufficiale: “il parco giochi, le aree attrezzate per il picnic e le attività sportive tra cui canoa, tiro con l’arco, postazioni per la pesca amatoriale sono sempre a disposizione degli ospiti”. Insomma, è chiaro, non c’è bisogno di prenotare e c’è persino la possibilità di un maneggio.
Nel sito viene decantato il bosco costiero sempreverde, formato da pineta, lecceti, Macchia mediterranea e canali salmastri navigabili, collegati con il mare. Pare che il Parco sia la meta preferita di uccelli migratori e che ci siano il Martin pescatore, il picchio rosso, l’upupa, l’airone cenerino e tantissime altre specie. La vicinanza a casa gioca la parte più grande nella scelta: poco meno di 30 km. E infatti, in mezz’ora di macchina, compreso il traffico, arriviamo lì.
Il parcheggio è custodito: 3,00 euro tanto per gradire, e per parcheggiare la macchina in un enorme spiazzo di sterrato sotto il sole cocente di una giornata festiva e caldissima fuori stagione. È il primo maggio e la gente, alle dieci del mattino, già comincia ad affollare lo spiazzo. Per entrare, infatti, dobbiamo fare la fila. La signorina alla cassa fa volteggiare nell’aria uno Zampirone appena acceso e capisco in un attimo di aver commesso un errore madornale: non ho portato lo stick all’ammoniaca, le zanzare ci massacreranno. Sono pronta.
Per la modica cifra di 24 euro (8,00 euro noi due adulti e 4,00 euro i bambini, anche se entrambi sotto i 6 anni) ci danno i biglietti e ci fanno un timbro sulla mano, per testimoniare l’avvenuto pagamento. Entriamo e la prima cosa che si avverte è la freschezza dell’aria, la purezza. Viali alberati e il sole che filtra tra i rami ogni tanto, temperatura perfetta, nonostante siamo ancora a mezze maniche venendo dall’arsura del parcheggio. Sono ben segnalati lo spazio canoe e lo spazio maneggio.
Ci avviamo verso le canoe. Il canale con sbocco nel mare c’è ed è anche pieno di rane. Un motoscafo trascina un tipo che sta facendo sci d’acqua, ma di canoe neanche l’ombra. Ci tratteniamo un po’ a sentire il gracidio e a guardare le rane saltare e i girini nuotare, poi ci dirigiamo verso il maneggio. È strano, ma nessuno de visitatori si muove dall’area giochi per bambini o da quella attrezzata per picnic.
Lungo il cammino incontriamo una delle due addette allo staff che ci sono (le uniche due che incontreremo in tutta la giornata per circa 40 ettari di terreno recintato) e chiediamo se è possibile accedere al maneggio. La signorina ci risponde che nei giorni di festa le attività sono sospese e che è possibile unicamente fare picnic. Cerchiamo di non pensare al fatto che abbiamo pagato 24 euro in tutto per consumare semplicemente il panino che abbiamo in borsa.
Facciamo giocare i bambini nell’area giochi, che comprende, in tutto, una casetta per due poggiata sul nudo terreno, uno scivolo semplice più uno con una piattaforma su cui arrampicarsi, per i più piccoli, un’altalena e una corda con nodi su cui cimentarsi come Indiana Jones e poi ci incamminiamo verso uno dei viali alberati in cerca di un tavolo libero.
Le aree attrezzate con barbecue e tavolacci in legno iniziano a riempirsi, ma abbiamo adocchiato alcuni tavoli solitari lungo la strada e ci dirigiamo lì. Ogni tanto ci incantiamo a guardare i gruppi che entrano. Hanno sulle spalle grossi zaini, di quelli che si usano per lunghi viaggi, buste gigantesche in mano, borse termiche e sedie, e tavolini, e sdraio. Nel nostro zaino, invece, abbiamo soltanto il panino con la frittata per tutti e quattro, un po’ di prosciutto crudo, due banane e un pacco di patatine, oltre all’acqua per tutti. Che avranno portato questi? La curiosità ci ammazza quasi più della fame dei bambini.
Sono le 12. Troviamo un tavolino appartato giusto di fronte all’area attrezzata con il barbecue. Siamo in mezzo alle frasche su un tavolaccio di legno con due panche ai lati. È selvaggio ma carino. Mentre cerchiamo di salvare i bambini dalle zanzare, consumiamo allegramente e in gran freschezza in nostro parco pasto. Poi i bambini si mettono a giocare a pallone con una pigna (ah, dimenticavo: all’ingresso campeggia un cartello con su scritto “vietato introdurre palloni”, così, prima di entrare, torniamo a posare il nostro nell’auto, salvo poi scoprire che siamo stati gli unici a leggere il divieto) e noi a guardarci intorno. Meglio di un teatro.
C’è una famiglia di almeno quindici persone, tutte obese, che occupa quasi per metà l’area. Iniziano a tirare fuori dalle borse cose che voi umani non avete mai visto, noi a Napoli, invece, sì. Padelloni e pentoloni da far invidia ad una mensa aziendale e ruoti giganteschi che a casa nostra mio marito ed io neppure ci sogniamo di acquistare. Accendono la brace e scaldano l’acqua per la pasta: sì, hanno pensato anche a quello. Vediamo il fumo salire alto attraverso gli alberi e sentiamo l’odore di fritto. Hanno portato con sé filetti di pesce da friggere al momento e un grosso pentolone in cui scaldano il sugo per la pasta. Le donne, dato il giorno di festa, sono sedute a chiacchierare, mentre gli uomini, con il grembiule da cucina indosso, sono intenti alla cottura. Il barbecue dovrebbe essere in comune per tutti, ma lo monopolizzano loro soltanto. Uno spettacolo.
Oziamo ancora un po’, mentre ci godiamo la scena. Intanto, arrivano altri avventori: sono in dieci, e hanno in mano un foglio di carta che guardano ogni tanto. Uno di loro si avvicina a noi e ci chiede che numero sia il nostro tavolo, perché loro hanno una prenotazione. “Strano”, rispondiamo, “sul sito c’è scritto che si prenota solo il posto al ristorante, mentre tutto il resto è libero”. Il tavolo, comunque, non reca impresso alcun numero, perciò rispondiamo che non lo sappiamo. Restano lì a pochi metri mentre uno di loro va in cerca dell’addetta alla sicurezza. Torna dopo un quarto d’ora, visibilmente trafelato e la signorina viene a dirci che il tavolo è prenotato. Ci alziamo subito e raccogliamo le nostre cose per andar via. I dieci, però, sono abbastanza contrariati. Il capofamiglia si avvicina a noi e fa: “Mi dovete scusare, io non capisco perché qua bisogna sempre fare questioni, neppure un numero sul tavolo, nessuno che ci dica cosa fare o dove andare”. “Ma si immagini” rispondiamo “Se è prenotato è giusto così”. E lui, riconoscendo quasi in noi degli amici, inizia a lamentarsi della mala organizzazione e del fatto che il tavolo è sì e no per sette e che gli altri resteranno in piedi. Che avevano intenzione di fare il barbecue e invece l’energumeno in grembiule da cucina a quadrettini ha monopolizzato l’area intera e che non c’è una persona a cui chiedere aiuto per farlo sloggiare da là.
Ascoltiamo comprensivi, come fossimo due psicologi dell’Asl. Anche perché il capofamiglia è quasi in lacrime. Mentre ci invita ad unirsi a loro e noi decliniamo cortesemente l’invito, ci racconta che abita a soli tre km da lì e che, se sapeva, il barbecue se lo faceva nel giardino di casa sua. L’energumeno ai fornelli, intanto, continua a friggere pesce incurante di tutti gli altri che aspettano con la bava alla bocca il proprio turno.
Andiamo via lasciando una smorfia avvilita sul viso di un uomo distrutto, il capofamiglia indigeno. Ci avviamo di nuovo verso l’area giochi per far svernare un altro po’ i bambini. Lungo il cammino mi accorgo che di uccelli, nel Parco degli uccelli, non ne abbiamo sentito cantare neppure uno. Magari, nei giorni di festa, ingabbiano anche loro.