Con la pronuncia n. 22, resa lo scorso 16 febbraio, la Corte costituzionale ha siglato un’altra censura ad una norma del c.d. “Decreto Milleproroghe”, convertito con la Legge 10/2011.
La norma in questione, meglio conosciuta come “Tassa della disgrazia”, introdotta dalla suddetta legge, dispone che “a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, il Presidente della regione interessata dagli eventi di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), qualora il bilancio della regione non rechi le disponibilità finanziarie sufficienti per effettuare le spese conseguenti all’emergenza ovvero per la copertura degli oneri conseguenti alla stessa, è autorizzato a deliberare aumenti, sino al limite massimo consentito dalla vigente legislazione, dei tributi, delle addizionali, delle aliquote ovvero delle maggiorazioni di aliquote attribuite alla regione, nonché ad elevare ulteriormente la misura dell’imposta regionale di cui all’art. 17, comma 1, del decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398 [n.d.r. Imposta Regionale sulla benzina], fino a un massimo di cinque centesimi per litro, ulteriori rispetto alla misura massima consentita”.
La reale portata di tale norma, che ad una lettura non contestualizzata sembrerebbe configurare una mera facoltà per il Presidente della regione “calamitata”, viene però chiarita inequivocabilmente dal successivo comma introdotto dal medesimo articolo, che subordina espressamente a tali “libere scelte” della regione la concessione delle risorse del Fondo nazionale di protezione civile.
In parole povere, una regione colpita da una calamità naturale, prima di accedere alle risorse statali, avrebbe il dovere di aumentare sino al massimo consentito l’importo di tributi ed imposte, ivi compresa l’Imposta Regionale sulla benzina; oppure, beninteso, potrebbe anche non procedere a tali aumenti (ed è qua che rileva “l’ampia discrezionalità” regionale), ma non avrebbe diritto al contributo statale.
La Corte costituzionale, investita della relativa questione di legittimità da parte di alcune regioni che hanno sollevato la presunta violazione degli artt. 1, 2, 3, 23, 77, 117, 118, 119, 121 e 123 della Costituzione, ha ritenuto ammissibili e fondate le doglianze avanzate dalle regioni.
Valutata preliminarmente la questione sull’art. 77 Cost. (relativo alla disciplina del decreto legge), la Corte ha riconosciuto ricorrere, anche in questo caso, il diffuso malcostume legislativo di utilizzare l’istituto del decreto legge per perseguire finalità ed esigenze del tutto differenti rispetto a quelle a cui questo sarebbe costituzionalmente preposto.
La Consulta, dopo aver precisato che i motivi di urgenza a fondamento dell’utilizzo del decreto legge dovrebbero pre-esistere e non, viceversa, essere presunti dal semplice fatto che una disposizione è assunta nella forma di tale istituto legislativo, ha altresì rilevato l’illegittimità dell’utilizzo del decreto legge per l’approvazione di norme contenenti discipline c.d. “a regime”. Con tale termine si indicano comunemente norme dettate non da singole esigenze eccezionali, bisognose di un intervento urgente e ad esse limitato, bensì norme dettate da esigenze di carattere generale e volte a regolare tutti i futuri casi afferenti ad esse; e quella considerata nel caso di specie, appunto, deve ritenersi disciplina “a regime”, poiché del tutto slegata da contingenze particolari, pur se inserita in un provvedimento recante “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie” (rubrica del “Decreto Milleproroghe”).
Secondo la lettura costituzionalmente orientata del Giudice delle Leggi, “l’approvazione di una nuova disciplina “a regime”, attraverso la corsia accelerata della legge di conversione, pregiudicherebbe la possibilità per le Regioni di rappresentare le proprie esigenze nel procedimento legislativo”.
La Corte, poi, considerando i profili di incostituzionalità sollevati in relazione all’art. 119 Cost., ha rilevato una violazione sia del primo comma, sia del quarto comma della norma.
Infatti, mentre, sotto il primo profilo, il fatto di imporre alle regioni la deliberazione di aumenti fiscali per poter accedere al Fondo nazionale della protezione civile lede il principio costituzionale di autonomia di spesa delle stesse, sotto il secondo profilo risulta violato il legame intercorrente tra le entrate delle regioni e le loro funzioni, e ciò in quanto lo Stato trattiene a sé le funzioni in materia di protezione civile ma ne accolla i costi alle regioni.
Considerando poi l’art. 2 Cost., la Corte ha riconosciuto anche una palese violazione del dovere di solidarietà in esso contenuto, poiché l’obbligo degli aumenti fiscali grava irragionevolmente sulla regione già colpita da una calamità, con una conseguente ulteriore penalizzazione dei suoi abitanti.
La norma de qua, infine, è stata considerata “in contrasto con l’art. 23 Cost. in quanto viola la riserva di legge in materia tributaria, e con l’art. 123 Cost., poiché lede l’autonomia statutaria regionale nell’individuare con norma statale l’organo della Regione titolare di determinate funzioni”.
I restanti profili di incostituzionalità sollevati dalle regioni sono stati considerati, dalla Corte, assorbiti da quelli esaminati nella sentenza in questione. Sentenza, quest’ultima, che ha “bocciato”, con il consueto aplomb istituzionale del Giudice delle Leggi (a cui non ritengo di andar soggetto), una norma a dir poco vergognosa a cui nemmeno le più estreme tendenze della più ottusa deriva federalista avrebbero mai osato avvicinarsi.
M.M.