Una panchina, un libroLe ferite di guerra non si rimarginano più

Chang-rae Lee, Gli arresi, Mondadori, 2012. Trad. Silvia Pareschi Guerra di Corea, 1950: una bambina di undici anni fugge dalle zone dei combattimenti con i suoi due fratellini gemelli , unici supe...

Chang-rae Lee, Gli arresi, Mondadori, 2012. Trad. Silvia Pareschi

Guerra di Corea, 1950: una bambina di undici anni fugge dalle zone dei combattimenti con i suoi due fratellini gemelli , unici superstiti della famiglia, in un lungo percorso di fame e stenti inimmaginabili. Quando stanno per raggiungere Pusan, dove potrebbero essere più al sicuro (Il viaggio era quasi finito sono le prime parole del romanzo) i gemelli cadono dal treno stipato di sfollati. La piccola muore nell’impatto e la sorella maggiore soccorre il fratello , ancora vivo, ma con le gambe tranciate. Deve decidere se stargli accanto o risalire sul convoglio che va verso il Sud e verso la sopravvivenza.

Sboccia così, dalle prime pagine di questo romanzo, il personaggio di June Han, che impareremo a conoscere in altre due fasi della sua breve vita: all’orfanotrofio in Corea alla fine della guerra, e poi a New York, quando a quarantasette anni, minata dal cancro, decide di chiudere il suo negozio di antiquariato per cercare il figlio Nicholas, partito per l’Europa otto anni prima. Solo quando lo troverà, o penserà di averlo trovato, si arrenderà.

Lo scrittore Chang- RaeLee, nato nella Corea del Sud nel 1965 ed emigrato negli Stati Uniti con la famiglia quando aveva tre anni, concepisce un romanzo duro, molto duro, e complicato nella struttura temporale. Tuttavia un “page-turner”, un “volta- pagina” come dicono gli americani, che non riesco a mollare, anche se proseguire ha qualcosa di masochista. Perché i personaggi di Rae-Lee non suscitano empatia. June, all’orfanotrofio è intrattabile, solitaria, a volte violenta. Porterà con sé le cicatrici della guerra fino alla morte. Così come feriti, sofferenti e solitari sono gli altri due protagonisti dello strano triangolo che si materializza nell’orfanotrofio coreano.

Hector Brennan, il soldato americano che la bambina , stremata dalla fame, segue come un cane randagio, è ancora più imperscutabile della stessa June. Hector, di fatto, odia se stesso, ma per un miracolo della natura è indistruttibile, le sue ferite fisiche si rimarginano subito, mentre quelle psichiche si allargano sotto l’effetto dell’alcool. Lascerà la Corea e lo ritroveremo in America dove sopravvive in condizioni di emarginazione con lavori di mera sussistenza. Sylvie Tanner, la moglie del pastore protestante che dirige l’orfanotrofio, ha anche lei una terribile storia di violenza alle spalle: apparentemente solare di giorno, nella notte cerca di alleviare il proprio dolore con la morfina.

La narrazione si muove avanti e indietro nel tempo e nello spazio, dalla Cina degli anni Trenta, alla Corea dei Cinquanta, a New York e all’Italia nel 1986, dove finisce (questa volta per davvero) il viaggio di June. C’è da chiedersi come Lee abbia tenuto il filo di tanti spostamenti e tanti personaggi. Abbondano i non-protagonisti, quasi tutti cesellati con cura (ad esempio, l’investigatore privato ingaggiato da June; il pastore, marito di Sylvie; Dora, l’amante di Brennan), mentre alcuni altri non sembrano meritare la stessa attenzione da parte dell’autore ( un caso sorprendente è il marito americano di June, del quale non si sa quasi nulla).

Perché leggere Gli Arresi? Non tanto per la trama, che, malgrado la forza emotiva che la pervade, nel finale mostra qualche debolezza. Ma per gli straordinari episodi, soprattutto del passato, che lo scrittore scolpisce con un linguaggio indelebile: la “marcia della morte” dei rifugiati coreani, l’uccisione di un prigioniero da parte dei soldati americani, la violenza dei giapponesi in Manciuria. O anche semplici “istantanee”, che Rae-Lee incastona lungo la narrazione a titolo di pro memoria degli orrori della guerra, come quella del piccolo Min, ospite dell’orfanotrofio, che lungo il ruscello, dove sta giocando con i compagni, racatta un grosso verme d’acqua e se lo porta alle labbra. Poi si ferma all’ultimo istante e ci ripensa “come per liberarsi da una brutta abitudine” (la traduzione è mia).

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