«Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre nuovi strumenti di politica economica. Attualmente è politicamente impossibile farlo. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti saranno creati». Queste parole, scritte da Romano Prodi in una lettera al Financial Times, risalgono al dicembre 2001. L’euro sarebbe entrato nelle tasche degli europei dopo pochi giorni e l’attesa era elevata. A dieci anni di distanza, è arrivato il momento in cui l’euro sembra essere solo più un oggetto creatore di sventure, povertà e ineguaglianze. «Una gabbia da cui scappare», lo ha definito qualcuno. Ma in realtà, la colpa di questa crisi che sembra non aver fine non è della moneta, dell’architettura economica che la sorregge o della speculazione internazionale. Prima di tutto, è un fallimento della politica.
La crisi europea, che non è solo una crisi dei debiti, sta evidenziando che manca un coordinamento politico centrale. In virtù di uno scambio oneroso, quello di una parte della sovranità nazionale, si sarebbero dovuti creare gli Stati Uniti d’Europa. O almeno questo era uno dei sogni dei padri fondatori dell’Unione europea. Non più cittadini italiani, greci o tedeschi, ma cittadini europei. Ma dato che questo processo, si sapeva dall’inizio, avrebbe richiesto diversi decenni, si è optato per la soluzione più semplice, cioè unire le economie. E qui, è arrivato uno degli errori più grandi. Al contrario della Federal Reserve americana, la Banca centrale europea ha uno solo mandato, quello della stabilità dei prezzi. La Fed ha infatti anche il mandato della piena occupazione, che gli fornisce ampi margini di politica monetaria. Ma questo, purtroppo, ha dimostrato che nemmeno un sistema come quello americano, sotto stress, è immune agli shock. Se la Fed non fosse intervenuta ripetutamente con politiche di allentamento quantitativo, facendosi carico di rischi non indifferenti (e che non le competevano), gli Stati Uniti avrebbero impiegato diversi anni per tornare ai livelli in cui sono.
L’Europa, tuttavia, ha compiuto un altro errore, forse cruciale. Non ha saputo unirsi come popolo. Nella più piccola eurozona ci sono 17 economie, 17 sistemi industriali, 17 politiche di bilancio, 17 interessi particolari. E tutti sono differenti l’uno dagli altri. Questo è il frutto di un artificio iniziale a cui non sono seguiti adeguati spin politici, capaci di creare un concetto di patria europea. È vero che ci sono sia una bandiera che un inno, ma ormai le nuove generazioni riconoscono l’Europa solo come un carrozzone burocratico, lento e scarsamente legittimato dai suoi cittadini. Facile quindi immaginare che possa nascere movimenti contrari a questo sistema, potenzialmente in grado di diventare partiti politici veri e propri.
Questo è quello che sta accadendo nella piccola Grecia, ma è anche ciò che potrebbe accadere nell’Italia di domani. E via via, come un virus, in tutto il resto d’Europa. Sarà quello il momento in cui i leader che ci saranno dovranno scegliere cosa fare di questa creatura artificiale chiamata Europa. Quel momento non è lontanissimo e a Bruxelles lo sanno. C’è da sperare che non si scelga la via più semplice, quella del ripudio. Significherebbe aver buttato decenni di lavoro.