Di manovra in manovra, l’onere fiscale a carico dei cittadini italiani è diventato sempre più insopportabile. Il novello tic cronachistico, che ha tutte le fattezze della consueta campagna di stampa, ha preso a tal punto la mano che non vi è tentato o consumato suicidio che non sia motivabile con la crisi o con la implacabile ferocia dei riscossori, nei confronti dei quali i tartassati hanno rispolverato il motto “dagli all’untore” di manzoniana memoria. Come se la colpa fosse dei termometri che misurano la febbre degli ammalati.
E nel 2012, secondo i dati forniti dal Governo nell’ultimo Documento di Economia e Finanza, il termometro della pressione fiscale toccherà il 45,1% (calcolato sul Prodotto Interno Lordo): quanto basta per stendere il moribondo cavallo dell’economia italiana.
L’ultimo mantra, la cui insistenza è in rapporto di proporzionalità diretta con le vittorie delle varie epifanie della sinistra europea, è l’invocazione della crescita. Come tale obiettivo, di per sé meritorio e prioritario, possa essere perseguito non è dato saperlo, almeno leggendo i breviari dei programmi elettorali di matrice socialdemocratica. Non fosse altro perché l’antica ricetta del deficit spending, ha condotto al disastro di oggi, paventato da David Ricardo: debiti oggi, tasse domani.
Se poi la fantasia economica dovesse estrarre dal cilindro il coniglio di una qualche forma di svalutazione della moneta, per parte nostra ci teniamo i nostri dubbi. Il penultimo numero dell’Economist, disegnando i contorni di un possibile e sempre più probabile abbandono dell’euro da parte della Grecia, ci ricordava come tra i famigerati PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), l’unico in controtendenza fosse l’Irlanda che, nonostante le conseguenze della crisi finanziaria che l’hanno colpita assai duramente, sta dimostrando segni di sensibile ripresa, con una crescita del prodotto interno lordo sensibilmente positiva e con una ripresa degli investimenti. La ricetta irlandese, non a caso, ha consentito, meglio degli altri paesi sull’orlo del tracollo, il ristabilirsi di nuovi prezzi relativi (per i fattori lavoro e capitale), grazie alla flessibilità del mercato del lavoro ed alla profittabilità degli investimenti in attività d’impresa dovuti alla bassa tassazione. A riprova di come le crisi finanziarie, che poggiano le loro radici nell’economia reale, si superano non inventandosi qualche stratagemma monetario ma facendo ri-funzionare l’economia di mercato.
Ma torniamo al nostro paese. Comprendiamo, e condividiamo, il crescente senso di asfissia per uno stato che assorbe quasi la metà della ricchezza prodotta. Anche perché restiamo convinti che ogni euro prelevato dall’erario è un euro sottratto al cittadino: e non ci consta alcuna prova della superiorità delle capacità di spesa, di investimento o, per chi ama il termine, di programma, da parte delle pubbliche autorità. Anzi, in tale materia, dati i tristi esempi italici, ci parrebbe di dover stabilire una sorta di presunzione di inefficienza della spesa pubblica. Ma il nostro, si dirà, è un vecchio pregiudizio individualista.
Ma questo pregiudizio individualista dovrebbe essere la pietra d’angolo di una corretta concezione dei rapporti tra individuo e stato. Detto altrimenti: tra società civile e stato. Come ricordava Thomas Paine nel suo Common Sense «alcuni scrittori hanno talmente confuso la società col governo da non lasciar quasi distinzione alcuna tra questa e quello […] La società è il prodotto delle nostre necessità e il governo della nostra cattiveria; la prima promuove la nostra felicità positivamente unendo i nostri affetti, il secondo negativamente frenando i nostri vizi. Una incoraggia la fusione, l’altro crea distinzioni, la prima protegge, l’altro punisce. La società in ogni suo stato è una benedizione, mentre il governo, anche nelle condizioni migliori, non è che un male necessario; nelle condizioni peggiori, un male intollerabile».
Il governo, con ciò intendendosi lo stato, nasce e deve essere mantenuto in funzione dell’individuo, restando distinto e limitato rispetto alle diverse manifestazioni della personalità umana che, associandosi liberamente per perseguire i propri scopi, deve saper contare su se stessa. Non a caso, nella tradizione liberale, lo stato viene visto come il luogo in cui ospitare l’insocievole socievolezza dell’individuo, che ambisce alla propria autonomia ma che si rende conto della necessità di dover costruire una serie di rapporti sociali, limitati e circoscritti.
Lo spirito moderno, invece, è facilmente caduto vittima della seduzione del potere statuale che come tale tende a giustificare se stesso comprimendo ed annichilendo lo spirito individuale. Il modello di Stato figlio dell’inflazione delle troppo spesso zodiacali domande di diritti economici si è trasformato, nella profezia di Tocqueville, in un «potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro [agli individui] il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purchè non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali… perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?».
Così nasce e cresce lo stato onnivoro, che impone, con lo strumento della coazione (la legge), il versamento di quanto egli stesso ritiene necessario per il proprio mantenimento. Ha fatto ricorso alle arti della persuasione più suadente, lardellando il cattivo vizio dell’esazione con la parola magica “sociale”, spingendo non pochi a rifiutare – erroneamente – l’individualismo perché forzato sinonimo di egoismo.
Una società come quella italiana, digiuna di cultura liberale, non poteva e non voleva opporre a quel potere una consapevole resistenza. Cerca di farlo oggi, perché percepisce l’insostenibile gravità della pretesa, sentendosi soffocata da una presa che la crisi ha fatto più stretta e più ineludibile.
Spiace riconoscerlo, ma il sentimento prevalente tra gli italiani sembra oscillare come un pendolo tra due estremi: da un lato il ribellismo anarcoide che tutto rifiuta; dall’altro la sudditanza più cieca, passiva, pedissequa, capace di accettare supinamente tutto. Nessuna mediazione tra questi due poli, poca o punta consapevolezza che lo stato mai avrebbe potuto pretendere di raddrizzare il legno storto di cui è fatto l’essere umano, e che quando ha cercato di farlo ha lasciato macerie, corruzione e sofferenza.
Pretendere oggi una ridefinizione dei confini dello stato, dei suoi limiti, è un’opera immane. Non per questo non ci si deve provare. Ma per sperare di riuscire nell’intrapresa, ci si deve convincere che nessuna ricetta liberale può dirsi realizzabile se manca l’ingrediente indispensabile dell’affidamento nella responsabilità individuale, l’altro lato della libertà.
Se si è responsabili, si devono sapere sopportare gli oneri della sconfitta, della perdita, dell’insuccesso, del fallimento, non solo economico. La responsabilità individuale non può partorire il mito dello stato dispensatore di benefici. Per troppo tempo, però, abbiamo preferito vivere ed esser parte di una società afflosciata dalla quale non poteva nascere un regime liberale. Ci si è lasciati governare, e sgovernare, per infingardia e debolezza, come ammoniva La Bruyére. Ci siamo fatti ammansire un vago concetto di bene, di socialità, imposto dal di fuori.
Non abbiamo voluto realizzare che i diritti sociali, i diritti di terza generazione che hanno edificato il moderno Welfare State, non sono identici, per struttura e per universalità, ai diritti civili e politici. Mentre questi ultimi, infatti, si fondano sulla pretesa di istituire un limite all’esercizio del potere, i diritti sociali, per loro intima natura, impongono un intervento: con l’erogazione di un servizio, con il riconoscimento di un assegno, di un alloggio e così via. Per loro natura, quindi, i diritti sociali sono diritti economici e come tali non possono essere esonerati dal vincolo di bilancio.
Ma non solo: costituiscono il fondamento di un potere, il potere di esazione dei contributi (o delle tasse) da parte dello stato per il loro finanziamento. Ed è per questo che mentre i diritti civili e politici sono essenzialmente universali, nel senso che non possono non essere riconosciuti a tutti, i diritti sociali dovrebbero fondarsi sul principio di differenza: venendo riconosciuti previa individuazione di una ragionevole situazione di bisogno. Se, come pare, diventa necessario rimeditare i limiti dello stato e del suo intervento, non ci pare più eludibile la discussione sul punto. Abbandonando il feticcio dell’universalità dei diritti sociali, universalità che non fa il paio con la loro onerosità.
Non ci pare di sostenere un’eresia: nel 1947 Ernesto Rossi pubblicò un saggio, Abolire la miseria, che prevedeva la creazione di una rete di protezione per chi ne aveva concretamente bisogno. Per tutti gli altri avrebbe dovuto operare il meccanismo di mercato, recependo quanto teorizzato da Philip Wicksteed in The Common Sense of Political Economy giusto un secolo fa.
La risposta del successivo cinquantennio fu l’economia a due settori, in cui il settore pubblico faceva “concorrenza sleale” a quello privato. A riprova che quel saggio non venne letto. E motivo in più per riprendere la discussione da quella suggestione.