Michele Santoro da giorni sta proponendo la propria candidatura a direttore generale della Rai, il cui consiglio di amministrazione è ormai scaduto. Una proposta che prevede anche il nome di Carlo Freccero nel ruolo di presidente.
Quella che sembra non essere una semplice provocazione mira a scardinare il metodo delle nomine Rai, per cui il curriculum di chi concorre per un consiglio di amministrazione pubblico, pubblico deve essere. E la scelta del candidato deve fondarsi sulle sue capacità, il suo percorso professionale e – soprattutto – avvenire sotto gli occhi informati dell’opinione pubblica.
Alla luce di questa sortita, alcuni elementi della sua ultima creatura televisiva risultano ancora più significativi.
Innanzitutto Santoro ha scelto di innovare davvero il talk show: in «Servizio Pubblico» è scomparsa la classica “arena” di «Annozero». Ma anche di «Ballarò» e «Porta a Porta», per intendersi. Lo schema è infatti più essenziale e prevede al centro dello studio due soli protagonisti di area politico-culturale differente e, disposti in punti diversi del set, altri ospiti pronti a intervenire nella discussione.
Ovviamente la formula può variare a seconda delle esigenze della singola puntata ma, in linea di massima, è rimasta coerente dall’inizio della stagione.
È stata sicuramente una scelta coraggiosa perché in forte contrasto con il paradigma di «Annozero», fino all’anno scorso sinonimo di successo. E perché è parsa far sue le critiche più frequenti per questo genere di programmi, colpevoli secondo molti di generare il classico “pollaio” da cui era difficile trarre informazioni utili.
Tuttavia, sebbene il conflitto sia effettivamente diminuito nella rappresentazione televisiva, la direzione presa da Santoro porta comunque a una forte conflittualità. Per giunta inespressa.
In altri termini, se a partecipare a questo nuovo dibattito sono comunque invitati rappresentanti che hanno fatto del “pollaio” la loro cifra retorica, il gioco cambia. Questo genere di ospitate, a dire il vero, sono sporadiche. Ma il dato è proprio questo: sarebbero del tutto da cassare. Ascoltando infatti, per non fare che due esempi, Daniela Santanché o Alessandra Mussolini, il telespettatore legittimamente si aspetta che da un momento all’altro vengano travolte da un insulto o da un ceffone (metaforico, s’intende). O che siano loro a darlo: è uguale.
Invece la nuova dinamica di «Servizio Pubblico» subisce le provocazioni senza farle deflagrare, in un contesto costruito appunto per comprendere e non per incitare alla rissa. Unica soluzione: ponderare bene chi invitare in studio in modo che gli ospiti siano coerenti al nuovo corso che Santoro ha voluto dare alla trasmissione.
Stesso discorso per alcuni esponenti della deriva della politica in tv, la cosiddetta“politica pop” (Mazzoleni, 2009), quale è stata Sabrina Ferilli nell’ultima puntata. La sua funzione “poppizzante” perde di efficacia al di fuori del salotto, Bruno Vespa docet. E sottrae credibilità a una discussione impostata seriamente come pretende di essere «Servizio Pubblico». Cosa mai poteva aggiungere l’attrice romana al dibattito? Forse il suo punto di vista sulle note operazioni delle Fiamme Gialle, data la sua ultima fatica cinematografica «Vacanze di Natale a Cortina».
Di certo, ci vuole ancora tempo per prendere le misure a quello che comunque rimane il più efficace talk show di approfondimento politico. Partorito, tra l’altro, con pochissimo tempo a disposizione per la sua messa a punto e in onda su una piattaforma creata coraggiosamente ad hoc e sorta dal nulla. Lo dimostrano i vari cambiamenti apportati al programma dall’inizio della stagione, con le evoluzioni degli spazi di Vauro e Travaglio su tutti. E anche il compromesso tra innovazione e bilancio finale (ascolti) è sempre il punto più difficile da raggiungere, ma anche uno stimolo che Michele Santoro sembra aver preso alla sua maniera.
Come una di quelle sfide che di solito vince.