Il dato più sorprendente emerso dalle elezioni amministrative, oltre all’esponenziale crescita del movimento di Grillo, è il tracollo di un PdL la cui sopravvivenza stessa potrebbe essere messa in discussione. Gli altri, di certo, non se la passano bene, ma registrare il tonfo di un partito che da primo su scala nazionale riduce il suo consenso al di sotto del 10% in realtà territoriali di primaria importanza non è questione di poco conto. Da Mosca Berlusconi tiene a sottolineare che la sconfitta era preventivata, ma è ragionevole credere che un’ecatombe simile in Via dell’Umiltà nessuno l’avrebbe mai ipotizzata.
Le ragioni del declino, certificate ieri con la prima prova elettorale dopo il passo indietro di Berlusconi, vanno rintracciate nei molti episodi – politici e giudiziari – che si sono succeduti negli scorsi mesi: le vicende personali dell’ex premier, la frammentazione del centrodestra, la fine dell’alleanza con Bossi e il terremoto in casa Lega, le indagini su CL e Formigoni. Su tutte, però, la ragione che più ha determinato la frana elettorale dei moderati è il sostegno a un esecutivo tecnico sempre meno popolare.
Diverse volte su questo blog abbiamo spiegato perché, a nostro modo di vedere, il governo Monti sia chiamato a riformare un paese irriformabile e con il sostegno solo apparente di un Parlamento che temporeggia per evitare la disfatta delle principali forze politiche alle elezioni del prossimo anno, mediando l’operato dell’esecutivo con mille concertazioni e tenendo sempre viva la minaccia di tornare alle urne prima del dovuto. Tra tutti, il PdL è il partito che più ha pagato le contraddizioni tra il proprio programma e le politiche dei professori per la natura degli elettori del centrodestra, intolleranti alla tassazione sulla prima casa, a un fisco divenuto insostenibile, all’assenza di tagli rilevanti alla spesa pubblica, di liberalizzazioni e di riforme strutturali davvero incisive.
Eppure a sinistra sono in molti a definire quello di Monti un governo di destra liberista, ove destra e liberismo assumono connotati chiaramente dispregiativi. Fosse questo il liberismo saremmo tutti d’accordo con Vendola: la finta austerity che al taglio della spesa preferisce la tassazione a tappeto non piace granché a nessuno. Tra l’altro, con un centrodestra che si autoproclama liberista e piazza all’Economia un Giulio Tremonti, non si può incolpare la sola sinistra di aver confuso le idee agli italiani. Ma al di là della politica, dove spesso le affermazioni nascondono un certo tatticismo, si ha la sensazione che anche nel dibattito pubblico al liberismo vengano attribuite colpe proprie del corporativismo e della politica, che ha allargato i perimetri dello Stato nel tentativo di comprare con la spesa e il ricorso all’indebitamento il consenso della massa per il solo fine di mantenere e consolidare il potere e certe rendite di posizione oggi tanto avversate.
La grande delusione degli elettori del centrodestra, il considerevole aumento del tasso di astensione e il cosiddetto voto di protesta consistono in una graduale presa di coscienza della nudità del potere di questa classe politica che, prima o dopo, è destinata come le altre a perire nel cimitero delle élite, in accordo con quanto insegnatoci da Vilfredo Pareto. Che ieri si sia celebrato il funerale alla Seconda Repubblica è sotto gli occhi di tutti, ma se questo paese intende sopravvivere alla tempesta è bene che la Terza non inizi con il governo dei professionisti del falso ideologico, dei veterani dell’anticapitalismo per supposizioni: quelli che mai in vita loro hanno avuto il buongusto e l’onestà intellettuale di conoscere per deliberare, piuttosto che impapocchiare illazioni condite di luoghi comuni. La loro colpa non è quella di non aver capito l’economia, la società e i fenomeni politici, ma di non aver mai avuto l’interesse di farlo, paghi della loro ideologia onnicomprensiva e buona per ogni stagione.
Abbiamo una pressione fiscale reale superiore al 50%, un debito pubblico del 120% del PIL, un rapporto deficit-PIL del 3,9%, una burocrazia pietrificante, una vagonata di sindacati, associazioni di categoria e ordini professionali, le accise sui carburanti più alte d’Europa, un quadro normativo così intricato e un diritto tributario così incerto da mettere in fuga gli investimenti esteri, crollati nel solo 2011 del 53%. La lista potrebbe continuare molto a lungo. E’ la fotografia di un paese avverso al mercato, ai capitali, allo sviluppo. Un paese di cui si può dire tutto, tranne che sia liberista. Chi intende ancora sostenere il contrario o è in cattiva fede o ha decisamente bisogno di tornare a scuola.
Daniele Venanzi
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