Città invisibiliNon si abbatte, si cambia

La lunga ed inarrestabile crisi del settore edilizio appare ormai un elemento consolidato. A tal punto da costringere a cercare soluzioni alternative. Occasioni differenti sulle quali concentrare i...

La lunga ed inarrestabile crisi del settore edilizio appare ormai un elemento consolidato. A tal punto da costringere a cercare soluzioni alternative. Occasioni differenti sulle quali concentrare idee ed energie. Anche perché appare evidente che le politiche urbanistiche degli scorsi decenni hanno lasciato il segno. Interessate alla realizzazione di nuove cubature. Spesso dimentiche di un patrimonio, vasto, non solo inutilizzato, ma anche abbandonato all’incuria. Nella gran parte dei casi ai margini dei centri urbani, o anche al loro interno, al centro dei nuclei storici. Necessità e consapevolezza, l’uno un po’ parte dell’altro, possono aiutare a riattivare un settore agonizzante e ridare vita e lustro a parti a lungo quasi inutili. Attraverso il loro recupero renderne possibile la ricucitura con la città attiva.
I centri urbani italiani, ispirandosi ad una casistica quanto mai ampia e dettagliata in tutta Europa, hanno un’occasione forse insperata. Che solo la precarietà offre. Riacquistare spazi inutilizzati, sottraendoli al degrado. Adottando caso per caso, in relazione allo stato di conservazione e al pregio della struttura, modalità di intervento appropriate. Nell’ottica propositiva della ristrutturazione piuttosto che dell’abbattimento e quindi della ricostruzione. Ovunque sia possibile. Passando dalla progettazione ex novo alla ri-progettazione. Scegliendo la strada della rimodulazione degli spazi, del loro adeguamento ai nuovi standard, della ricostruzione di ambiti nei quali le persone non siano sottomesse all’architettura, ma ne siano i naturali fruitori. Bisogna insomma rifuggire dalla scelta per certi versi più facile. Quella di fare tabula rasa del passato, materiale ed immateriale, e di scrivere una nuova storia. Amministratori e costruttori sono spesso attratti da questa possibilità. Fin’ora quasi l’unica disponibile. Con il pretesto di offrire più servizi ai cittadini e arricchire le città di edifici dalle linee belle perché “particolari”, si é pervicacemente continuato a saturare spazi liberi o, in alternativa, a crearne. Naturalmente per poi rendere più agevole il compito ai progettisti. Non di rado celebri archistar. A Roma si é previsto che si verifichi a Tor Bella Monaca, l’insediamento riconosciuto nel 1934, dichiarato “zona di espansione” nel PRG del 1962, sviluppatosi con piani di edilizia economica e popolare negli anni Ottanta. Mentre all’Eur, é già toccato in sorte al vecchio Velodromo, realizzato in occasione delle Olimpiadi del 1960.
A Milano invece é successo ai palazzi in via Solferino, via Fabio Filzi, piazza Duca d’Aosta, viale Monte Grappa, via California, via Lomazzo e via Castelvetro. Distruzioni recenti che nulla hanno a che vedere con quelle raccontate con tristezza da Giovanni Raboni nella raccolta del 1966, Le case della vetra.
L’attenzione é rivolta ad edifici che abbiano una loro storia, che siano diventati parte caratterizzante di un centro urbano, che si siano sedimentati nella maglia cittadina. Quindi non a strutture temporanee come, ad esempio, il Palatinum di Corso Giulio Cesare a Torino. E neppure ad edifici simboli dell’abusivismo, come l’ecomostro della tangenziale dell’Arenella a Napoli, che dagli anni Ottanta é parte integrante del panorama.
Altrove, fuori dall’Italia, ma anche dall’Europa, é in crescita la tendenza a lavorare sull’esistente. Quindi non solo Parigi, dove a metà degli anni Ottanta le aree dismesse ammontavano a 10 milioni di mq, solo nel perimetro storico, mentre in periferia il numero aumentava considerevolmente. Non solo in Germania, nel bacino della Rhur dove si contavano circa 25 milioni di mq, né in Gran Bretagna dove erano 22 milioni. Né altrove dove il problema ha avuto significative risoluzione. Dal Parco di Duisburg Nord sui 230 ettari occupati dalle fabbriche siderurgiche Meiderich della società Tyssen. Al Westergasfabriek di Amsterdam, un’area industriale di 13 ettari tramutata in un’area verde con un centro culturale. Dal Parco MFO di Zurigo, a lungo utilizzato come discarica per le macerie e per i resti delle precedenti fusioni della fabbrica storica Machinefabrik Oerlikon (MFO). Ai docklands sulle rive nord del Tamigi, a Londra. Ma anche Las Arenas di Barcellona, una plaza de toros riconvertita in un centro commerciale. Oppure come il Park Hill di Sheffield trasformato da ghetto in residenza multicolor. Come un ex granaio a King’s Cross, a Londra, divenuto una nuova sede della mitica Central Saints Martins. Come il magazzino di cacao, tè e tabacco di Amburgo trasformato nella Filarmonica della città. Non solo Europa, ma anche Asia, a Mumbai. Qui, piuttosto che abbattere lo slum di Dharavi, dove risiede più della metà della popolazione cittadina, ammassata in abitazioni di pochi metri quadrati, si é preferito affidarsi agli studenti della scuola di designer più prestigiosa della città , il Sir JJ College of Architecture, per progettare la casa perfetta.
Insomma mentre in Arabia Saudita il Ministero della Casa entro il 2016 dovrà provvedere alla costruzione di più di un milione e mezzo di case, per soddisfare le tante richieste di alloggi, in Europa si cerca di consumare meno spazio possibile, riutilizzando l’esistente. In Italia ancora timidamente si guarda a questo nuovo modello. Tra la diffidenza dei costruttori e la mancanza di prospettiva di molti amministratori locali.

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