La camera verdePaura e Rivoluzione al tempo della crisi

Pablo Larrain è un giovane regista cileno che, grazie a una manciata di pellicole, ha acquisito fama internazionale, ed è ora ospite atteso delle principali rassegne europee. Nel suo cinema sono an...

Pablo Larrain è un giovane regista cileno che, grazie a una manciata di pellicole, ha acquisito fama internazionale, ed è ora ospite atteso delle principali rassegne europee. Nel suo cinema sono ancora impresse le cicatrici della dittatura di Augusto Pinochet, le stigmate che il vecchio generale ha trasmesso a un popolo che faticosamente ha rincorso la strada della libertà.

Gli ultimi due film, Post Mortem e No, sintetizzano con sguardo obliquo gli episodi più noti della parabola governativa che ha inghiottito quasi un ventennio di storia cilena. Post Mortem (2010) è una lenta discesa all’inferno, attraversata dal cadavere di Salvador Allende, un corpo in decomposizione che arriva sul lettino di un obitorio pubblico. Qui lavora Mario, funzionario pubblico che si aggira con entomologica perizia fra gli individui ammonticchiati, distinti soltanto da un cartellino e da un numero. Il naufragio della coscienza civile e politica di un popolo si coagula nelle piramidi grigiastre di uomini già trapassati nell’oblio. La salma del leader gentile diventa lo specchio immobile dell’esistenza svuotata di Mario, maschera all’apparenza imperturbabile, impiegato lacerato dal crollo delle illusioni private. Tutto è immerso in un’atmosfera di insondabile immobilismo, mentre le urla e gli spari si perdono nel nulla. Il finale, uno dei più amari che la storia del cinema recente ci abbia regalato, sancisce la chiusura di ogni orizzonte di speranza, facendo combaciare i lembi della storia individuale e collettiva.

No (2012) si colloca agli antipodi del film precedente, al termine della parabola pinochettiana, in un luogo dove la disperazione lascia il posto all’ironia di fronte al tracollo di un regime sanguinario. Nel 1988, sotto la pressione delle diplomazie internazionali, il generale accetta di indire un referendum che deciderà della sua permanenza al governo. Partita in sordina e senza nerbo, la campagna per il “No” – no alla povertà, all’esilio e alle torture – si trasforma nell’astuta guerriglia di un manipolo di pubblicitari che occhieggiano a un immaginario da soap opera, diventa un evento pop festoso e colorato, coinvolgendo meccanismi che gli uomini di stato sono incapaci di governare e assoggettare. La fantasia standardizzata dei giovani turchi dell’industria del marketing annienta la struttura ossificata di un governo ormai stantio, i cui sorrisi si celluloide riescono a occultare l’orrore dei martiri, ma non la spensieratezza evocata dalle immagini color pastello che scorrono negli spot che inneggiano al “No”.

A suon di jingle e caricature, gli artefici della disfatta di Pinochet costruiscono il proprio uditorio, invitandolo a uscire allo scoperto, a non temere le rappresaglie o anche, semplicemente, a barrare una casella nell’oscurità anonima della cabina elettorale. Oltre ogni aspettativa, vince il “No”.

Ogni referendum è, di per sé, un salto nel buio, un balzo verso un orizzonte in qualche modo ignoto. La speranza e la fantasia soccorrono l’ignoranza degli esiti e supportano le rivoluzioni gentili. Nel nostro paese, alla fine del secondo conflitto mondiale, di fronte alla scelta fra una Repubblica sconosciuta e una Monarchia fin troppo nota; nel Cile tormentato della giunta di Pinochet che, malgrado la possibilità non troppo remota di ritorsioni, risponde con coraggio alla chiamata imposta da un orizzonte esterno. Superata l’iniziale ritrosia, la paura che scorre negli sguardi dei protagonisti di No è l’euforia un po’ folle di chi sogna, almeno una volta, di cambiare il proprio tempo. Non c’è la paura negli occhi di Mario, l’impiegato di Post Mortem, ma l’immagine di una desertificazione interiore senza rimedio.

Al tempo della crisi, il deserto, l’indifferenza a quanto ci circonda, il senso di vacuità del singolo sono sempre in agguato e si alternano a una paura cieca. L’invito è, anche per noi, quello di scuotersi dal timore dell’impotenza e dall’ansia del compromesso, a cercare non un silenzioso accomodamento con gli scheletri del passato, ma un rinnovamento verace, che possa far tremare le fondamenta del nostro modo di abitare il mondo.

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