John E. Williams, Stoner, Fazi, 2012, trad. Stefano Tummolini
Non ci sono tecnicismi narrativi , flash back, flash forward in questa storia della vita di un uomo qualunque. Uno che, come tanti, non ha fatto nulla di eccezionale, né nel bene né nel male. Ha lavorato sodo, ha sofferto, ha amato, è morto. Nulla di straordinario, eppure questo romanzo non lascia indifferenti. C’è una tensione emotiva che anima la lettura, che ci spinge a rispettare il protagonista per la sua capacità di affrontare la quotidianità della vita con perseveranza. Parlo di perseveranza nell’accezione inglese di endurance: termine che mi sembra più appropriato a descrivere le qualità di questo personaggio apparentemente duro e tagliato con l’accetta. Del resto Williams, scegliendo per il protagonista il nome di Stoner, che ricorda la pietra, ne suggerisce fin dall’inizio le caratteristiche sia fisiche che psicologiche.
Nessun tecnicismo, dicevo. Per questa biografia fittizia Williams opta per la terza persona, che dà un maggior senso di distacco, e una semplice struttura cronologica: dalla nascita in una povera fattoria del Missouri, alla morte in un campus universitario non molto distante dal paese natio. Stoner non si è mai allontanato più di così e il micro-cosmo dell’università è la sua trincea per tutta la vita.
Anche il linguaggio di Williams è preciso, sobrio e solido, e tuttavia si presta a dipingere tanti momenti di malinconia struggente. Forse l’unico vero espediente narrativo è quello di chiarire già nella prima pagina che la vita di questo insegnante di inglese in una mediocre università americana, morto a 65 anni, non meriterebbe di essere ricordata.
Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale. I colleghi di Stoner, che da vivo non l’avevano mai stimato granchè, oggi ne parlano raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare cui associare loro stessi o le loro carriere.
Così nel lettore l’empatia per Stoner, la sua mitezza, la sua solitudine scatta subito: i torti che subisce nel corso della sua breve vita – e sono molti – ci offendono e rattristano di più, mentre esultiamo per i pochi momenti di (inaspettata) soddisfazione e felicità. Perché Stoner, nonostante la tendenza a restare rigidamente ancorato ai propri principi – un’inflessibilità ereditata dai genitori contadini – è capace di sorprendenti passioni che nella loro forza scatenante riescono ad alterare il percorso piatto della sua normalità. La prima si manifesta nei primi anni di università ed è la scoperta delle discipline umanistiche, la letteratura e l’insegnamento. Una folgorazione che non gli porterà né successi né riconoscimenti di carriera , ma che Stoner vivrà come sfida personale , seppure perennemente contrastata dall’ odioso professor Lomax, capo del dipartimento, suo antagonista fino all’ultimo. La seconda passione è l’amore per la giovane Katherine, sbocciato dopo anni di fallimentare matrimonio con l’ancora più temibile e crudele Edith. Un amore sensuale e completo.
A quarantatrè anni compiuti , William Stoner apprese ciò che altri ben più giovani di lui avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.
La storia con Katherine non può durare e il rapporto con la figlia Grace, inizialmente promettente, si scioglie nel silenzio, ma Stoner resiste con le sue lezioni e i suoi studi, malgrado Edith e malgrado Lomax. Lo costringe a cedere solo la malattia, accettata comunque con la coraggiosa rassegnazione, o perseveranza, di sempre. Cosa prova quando, al fondo di una vita che non verrà ricordata, scivola nell’incoscienza della morte?
Era il suo libro che cercava e quando la sua mano lo prese, sorrise vedendo la copertina rossa tanto familiare, ormai sbiadita e consumata nel tempo. Poco gli importava che il libro fosse dimenticato e non servisse più a nulla. Perfino il fatto che avesse avuto o meno qualche valore gli sembrava inutile. Non si illudeva di potersi ritrovare in quel testo, in quei caratteri scoloriti. E tuttavia sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta. Aprì il libro e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo. Lasciò scorrere le dita sulle pagine e sentì un fremito, come se quelle fossero vive. Il fremito gli attraversò le dita e corse lungo la carne e le ossa. Non era profondamente cosciente e aspettò fino a sentirsene avvolto, finchè l’eccitazione di un tempo, simile al terrore, non lo immobilizzò nel punto in cui era steso. La luce del sole, attraversando la finestra, brillò sulla pagina e lui non riuscì a vedere cosa c’era scritto. Le dita si allentarono e il libro che tenevano si mosse piano e poi rapidamente lungo il corpo immobile, cadendo infine nel silenzio della stanza.
Stoner, il terzo romanzo dello scrittore americano John Edward Williams (1922-1994) venne pubblicato per la prima volta nel 1965. Nel 2006 è stato riscoperto e riproposto dalle edizioni della New York Review of Books.