Il 5 giugno esce in DVD uno dei film più noiosi della storia, Il cavallo di Torino (A Torinói Ló). Il regista è l’ungherese anarchico Béla Tarr, mito per cinefili underground, militante contro il governo Orban, misantropo e estremo. Il film, che era a Berlino l’anno scorso e ha pure vinto il secondo premio, è straziante per scelta : in bianco e nero, quasi muto, la durata media dei piani si aggira intorno ai cinque minuti e in due ore e mezza non succede niente, o quasi. Pero’ è un capolavoro.
La domanda è: perché così lento?
Il cavallo di Torino è l’occasione per ricordarsi che la lentezza è un valore. Non è una questione di elitarismo o snobismo opposti ai gusti facili. La lentezza permette di riflettere, durante il film. Ci vuole spazio per pensare anche al cinema, come davanti a un quadro. Sono ormai fuori moda quei polpettoni roboanti e assordanti che tentano di coinvolgere ad ogni costo con la tecnica dei videoclip (i quali sono ben motivati : durano cinque minuti e il ritmo serrato è in competizione con la pubblicità, mentre al cinema è vero il contrario). E poi la lentezza si oppone alla frenesia della vita cittadina e del web, impone una rottura nella quotidianità dando spazio al pensiero.
Il cavallo di Torino, dunque. Il titolo fa riferimento a quell’aneddoto su Nietzsche che prima d’impazzire si getto’ al collo di un cavallo, in via Carlo Alberto a Torino. Il cocchiere l’aveva frustato perché rifiutava di muoversi. Nietzsche lo abbraccia, come capendone le ragioni e poi scoppia a piangere. Nell’ostinazione del cavallo, che si oppone improvvisamente alla routine, risiede tutta la questione, esistenziale, del film. Nessuna traccia di Torino, infatti, nelle immagini di Béla Tarr. Qui c’è una campagna squallida e stepposa.
Ma, dicevamo, la lentezza. Un film lento normalmente ha lunghi piani sequenza e poche azioni. Non basta, Béla Tarr passa al livello superiore. Non solo ogni piano è dilatato ed estenuante… le sequenze si ripetono. Ci subiamo la miserabile giornata dei protagonisti una mezza dozzina di volte con minime variazioni.
Pero’, ecco, in ognuna di queste variazioni si nota che qualcosa sta mutando nel loro mondo. Il pozzo non ha più acqua, il vento soffia sempre più forte, il cavallo non vuole più trainare il carro. In breve, si avvicina una sorta di fine, di annientamento più in senso metafisico che storico. Come se gradualmente il tutto si spegnesse. E i protagonisti persistono a eseguire le loro azioni quotidiane, anche di fronte all’evidenza della loro inutilità.
La lentezza e la ripetizione sono necessarie a far emergere la questione esistenziale nel film. La lentezza perché le descrizioni pedisseque dei gesti ne fanno apparire l’insignificanza. E la ripetizione perché ripetute, le azioni perdono valore. Tanto la fine arriva comunque, noncurante delle nostre azioni. Non c’è via d’uscita, per il nichilista Béla Tarr; l’unica risposta possibile è quella del cavallo che decide di opporsi. Smette di tirare.
Il cavallo di Torino, insomma, non è solo lento è anche uno dei film più pessimisti e deprimenti degli ultimi anni. Eppure, nonostante gli sforzi per tenere le palpebre spalancate, è un’esperienza d’impagabile profondità. Motivo per cui si può ordinare su Amazon.fr. Perché il DVD esce sì, ma in Francia; in Italia non si sa.
Per un assaggio, YouTube ci regala i primi cinque ipnotici minuti di film. Ma non fatevi illusioni: è l’unica scena relativamente movimentata.