L’Europa non funziona, torniamo alle nazioni. Confesso di avere qualche simpatia per chi esprime questo sentimento. Neanche io sono entusiasta dello stato attuale dell’Europa. Tuttavia, sono anche convinto che in politica non è prudente affidarsi troppo agli stati d’animo. Tenerne conto è un segno di saggezza, farsene guidare prima o poi conduce al disastro. Nella situazione in cui ci troviamo è piuttosto facile lasciarsi andare alla nostalgia per la sovranità perduta, lamentandosi per torti reali o immaginari che avremmo subito da parte dei nostri partner europei, dalla BCE o da altre istituzioni che appartengono alla costellazione dell’Europa unita. Chi ha un po’ di memoria e di onestà intellettuale non può fare a meno di osservare che molti nostalgici sembrano avere una visione piuttosto edulcorata della storia italiana degli ultimi venti anni. Le nostre presenti difficoltà non sono provocate esclusivamente da una crisi economica cui i governi e le istituzioni europee faticano a reagire in modo credibile, in parte anche per via delle incertezze degli stessi governi nazionali. A chi afferma cose del genere bisognerebbe chiedere dov’era l’Italia, dov’erano l’opinione pubblica e la classe dirigente di questo paese nel periodo dalla fine degli anni ottanta a oggi?
Dico la fine degli anni ottanta perché è allora che – riflettendo sull’esperienza dello SME e sui suoi limiti – comincia ad affermarsi nel dibattito pubblico l’idea che il processo di unificazione dei mercati richieda necessariamente l’unità monetaria dell’Europa. In una relazione tenuta all’Istituto Universitario Europeo alla fine del 1985, Tommaso Padoa-Schioppa argomentava in favore di tale prospettiva attraverso la tesi del “quartetto inconciliabile” che avrebbe ripreso ancora in suoi interventi successivi. Secondo Padoa-Schioppa: «in un sistema di Stati sovrani è impossibile avere nello stesso tempo libero scambio, liberi movimenti di capitali, tassi di cambio fissi e completa autonomia delle politiche macroeconomiche nazionali». Tale impossibilità, sosteneva l’economista recentemente scomparso, non dipende necessariamente dalla malafede o dalla mancanza di volontà delle parti coinvolte, ma da una vera è propria incompatibilità logica tra i quattro obiettivi menzionati. Nel febbraio dell’anno seguente viene firmato l’Atto Unico europeo che prevede il completamento del mercato unico entro il 1992, e apre la strada all’attuazione dell’unificazione monetaria. Leggendo gli interventi di studiosi e policy makers – talvolta, come nel caso di Padoa-Schioppa o dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Monti, i due ruoli si sovrappongono – pubblicati negli anni seguenti, si vede chiaramente che le dimensioni del cambiamento in corso non erano affatto ignote a chi volesse prenderne atto, e che le asperità del percorso per nulla imprevedibili. Un altro documento interessante, da questo punto di vista, è Intervista sull’Italia in Europa, una conversazione tra Mario Monti e Federico Rampini, pubblicata per i tipi di Laterza nel 1998, in prossimità della nascita dell’Euro. Rileggerlo oggi è un’esperienza interessante sul piano storico e deprimente su quello politico. Buona parte dei problemi con cui abbiamo a che fare sono già chiaramente evidenziati da Monti, che indica anche le soluzioni a suo avviso più opportune. Al termine della lettura la sensazione di aver perso venti anni, più o meno la vita di una generazione, si trasforma in certezza.
Non si torna indietro. Direi di più, non c’è un luogo dove tornare. La realtà politica dell’Europa unita è qualcosa che non può essere messo in questione. L’Italia che i nostalgici vorrebbe indietro non esiste più, e forse ha smesso di esistere molto prima che aderissimo alla moneta unica. Le chiacchiere sul ritorno al passato non sono altro se non vagheggiamenti puerili che, se non fossero tali, avrebbero conseguenze catastrofiche. Ciò non vuol dire che ci si possa limitare a cantare le lodi dell’Europa unita come tante volte è stato fatto negli ultimi anni. L’Europa politica è uno straordinario e per molti versi inedito esperimento costituzionale, la cui natura non è ancora chiara. Progredita in larga misura grazie alla spinta della “logica delle cose” – per riprendere l’espressione di Walter Hallstein – l’unione potrebbe essere alle soglie di un nuovo passaggio di integrazione, reso indispensabile per fare fronte al pericolo posto dalla turbolenza dei mercati finanziari. Per una comunità a democrazia “mediata” si tratta di un passo denso di incognite, dagli esiti niente affatto scontati. Una sfida appassionante e forse un’opportunità per chi crede che sia indispensabile rimettere insieme la testa e il cuore dell’Europa, cercando un punto di equilibrio nuovo tra le esigenze del mercato unico e quelle di una rappresentanza politica che non sia ridotta a mero simulacro.