ITALIABILITYSpending review, molto “spending” poco “review”

Se la spending review non mette al centro della sua analisi il numero di dipendenti ottimale per svolgere un determinato servizio pubblico, non serve a niente, anzi rischia paradossalmente di penal...

Se la spending review non mette al centro della sua analisi il numero di dipendenti ottimale per svolgere un determinato servizio pubblico, non serve a niente, anzi rischia paradossalmente di penalizzare le amministrazioni più virtuose. La produttività del pubblico impiego che dovrebbe essere misurata – al pari di quella politica – con criteri oggettivi, ed essere confrontabile regione per regione.

Il lavoro del supercommissario Bondi sta (giustamente) tentando di intercettare i nuclei di spesa improduttiva che dall’apparato centrale si diramano fino alle autonomie locali, nascondendosi nei meandri più imperscrutabili che “custodiscono” i costi della pubblica amministrazione. Costi che, come segnalato qualche giorno fa su Linkiesta, circa per l’80% sono in capo alle autonomie locali e il Governo ignora chi, cosa, come ha speso.
I dati forniti da Eutekne dicono, invece, tutt’altro: ad oggi, lo sforzo di riequilibrio dei conti pubblici grava per il 79,42% sui cittadini contribuenti (aumento della pressione fiscale) e pensionati (riduzione delle prestazioni erogate), per il 19,88% sulle regioni e gli enti locali, per lo 0,7% sull’apparato centrale dello Stato.

Per togliere un po’ d’indeterminazione a questo sistema ora fallace, basterebbe cambiare il punto d’osservazione. Non si tratta di capire chi spende di più tra Stato e amministrazioni locali, non è un problema di centralizzazione o localizzazione. Il vero nodo da sciogliere per diminuire la spesa pubblica improduttiva riguarda i costi eccessivi per personale politico e pubblici dipendenti.
Certo, ci sono Paesi che spendono molto di più: l’inflessibile Olanda, la nuova Francia di Hollande e i sempre citati Paesi Scandinavi, ma a rendere ben più grave la situazione italiana è la scarsa efficienza della pubblica amministrazione (spesso legata alla mancanza di meritocrazia). È un problema di rapporto qualità prezzo: nei paesi sopraccitati la qualità dei servizi è nettamente superiore.

Finché in metà delle Regioni italiane la pubblica amministrazione è dimensionata non sui servizi da erogare ma sull’assistenza sociale surrogata tramite stipendi privi di correlazione con i servizi, la spending review rischia di premiare le amministrazioni che non fanno nulla se non pagare stipendi, tagliando il potere d’acquisto di quelle che offrono effettivamente dei servizi utili al cittadino.

La spending review attuale, dunque, non porta con sé nessun rimedio: finché in Sicilia continuerà ad esserci il decuplo dei dipendenti rispetto al Veneto, anche il lavoro del supercommissario Bondi non otterrà risultati tangibili. Dopo la riforma-non riforma dell’articolo 18 che vede esclusi i dipendenti pubblici, un ulteriore rischio, come ben segnalato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi su lavoce.info, è quello di creare uno sterile dualismo tra lavoratori pubblici e privati.

Lo Stato, in quanto datore di lavoro, dovrebbe applicare a se stesso gli stessi parametri del settore privato. È necessario un indicatore di produttività che valuti costo lavoro e risultati ottenuti, non solo per il singolo dipendente ma per le intere amministrazioni. Gli indicatori possono essere molteplici, definendo diversi obiettivi misurabili, ma il risultato unico: comparare la produttività per distinguere i dipendenti che meritano incentivi e quelli che meritano di rimanere a casa, le amministrazioni virtuose e quelle inefficienti.
L’intento non deve essere quello di dare i voti o di produrre inutili e dannose divisioni sociali, bensì di introdurre criteri (in primis) meritocratici che portino l’amministrazione e la gestione della spesa pubblica verso standard europei.

Signor Rossi

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