No, non mi sono posto il problema di raccontare a mio figlio di sei anni il terremoto. Non lo credo necessario: non abbiamo sentito la scossa, non ha paura e non ha bisogno di essere rassicurato, non c’è (per ora) alcuna emergenza che anche solo lo sfiori. Semplicemente, lascio che sia, senza sapere se faccio male o bene. Ho osservato i suoi giochi, di solito il miglior modo per tenere a bada la realtà e farla propria. Ma sembra che proprio non ci sia traccia di quanto è successo.
Però è tutto il giorno che mi capita l’occhio su alcuni fatti più o meno marginali, tra le notizie. Per esempio, il decalogo di Save The Children per il supporto psicologico dedicato ai bambini post-evento: il punto 7 “Essere un modello” lo trovo il più difficile, ma anche il più bello. Dimentichiamo spesso che siamo noi i primi a plasmare i modelli dei nostri figli, e non i cartoni, o la play.
L’assurda reazione razzista a Cavezzo: non si spiega con il trauma, questo. Se dobbiamo essere un modello, adesso cosa diranno ai loro figli, scossi e impauriti e disorientati, i padri e le madri di Cavezzo? Avranno altro a cui pensare, mi rispondo io. Però speriamo che si possa, almeno in questo, tornare indietro. Ripassare. Riprovare. Anche in questo paese distrutto, in cui si facevano i cuori artificiali.
Amici che abitano in zona, e che stanno bene. Però che paura. E i loro bimbi che non si sa come reagiranno. I loro genitori sono persone in gamba, forse questa idea del modello farà loro stringere i denti.
Domani a scuola chiederò alle maestre se intendono parlare del terremoto e dare qualche spiegazione, e come. Volevo già farlo per le Olimpiadi. Per mediare un poco l’irruzione della realtà nel loro mondo di giochi e storie, per fare che sì che la assaggino e la metabolizzino e la commentino. E poi ricomincino a giocare, per esorcizzarla.
Loro che possono.