Nel marzo del 2010 mons. Charles J. Scicluna, “procuratore generale” del Vaticano, denunciò “una certa cultura del silenzio” ancora “troppo diffusa” in Italia sul dramma della pedofilia del clero. Lo fece in un’intervista ad Avvenire che creò un comprensibile scalpore. Da allora per la Santa Sede e per Chiesa cattolica mondiale sono passati lunghissimi mesi densi di cambiamenti profondi, ma per i vescovi italiani, che oggi hanno presentato le nuove linee-guida contro gli abusi sessuali dei minori, poco o niente sembra mutato.
Il documento della Conferenza episcopale italiana è minimale. La Santa Sede ha modificato la normativa canonica. La Pontificia università Gregoriana ha organizzato un simposio internazionale importante e bello. I vescovi di altri paesi – Stati Uniti, Germania, Austria – hanno aperto numeri verdi per le denunce, hanno creato uffici nazionali anti-pedofilia, hanno ingaggiato psicologi e avviato corsi di formazione. Così anche singoli, coraggiosi presuli italiani, come i due vescovi che si sono succeduti in questi anni a Bressanone. La Conferenza episcopale italiana, però, non ha fatto nulla di tutto questo. E poco importa che, quando Bressanone aprì una linea telefonica ‘ad hoc’ per le denunce di casi sospetti nella diocesi, arrivarono telefonate anche dalla Sicilia… La circolare vaticana del 2010, sotto il coraggioso impulso di Benedetto XVI, raccomandava agli episcopati di tutto il mondo di “offrire assistenza spirituale e psicologica alle vittime”, raccomandava “diligenza particolare” nel “doveroso scambio d`informazioni in merito a quei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa che si trasferiscono da un seminario all`altro”, raccomandava “programmi educativi di prevenzione”, per assicurare “ambienti sicuri per i minori”, indicava l’esempio del Papa – che ha incontrato vittime dei preti pedofili in svariati paesi del mondo – per incoraggiare i vescovi a fare altrettanto. Nelle linee-guida della Cei, nulla di tutto questo.
Il documento italiano, in particolare, riconosce che è “importante la cooperazione del vescovo con le autorità civili”, ma stabilisce che “il vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto”. La precisazione sorprende non solo perché sembra ignorare che, nell’ordinamento giuridico italiano, se una persona (compreso un vescovo) viene a conoscenza di un reato e non lo denuncia, può essere condannata per favoreggiamento dello stesso reato. Non solo perché nel recente passato un magistrato esperto della materia ha denunciato che non gli era “mai, e sottolineo mai, arrivata una sola denuncia né da parte di vescovi, né da parte di singoli preti”. Ma perché, più semplicemente, seppure non previsto dall’ordinamento italiano, non si capisce perché i vescovi non debbano – per sensibilità pastorale, per indignazione umana, per senso di giustizia – denunciare quello che il Papa in persona ha definito un “crimine odioso”, oltre che un “grave peccato”.