Nella sua famosa orazione funebre, Pericle affermò: “benché soltanto pochi siano in grado di dar vita ad una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla”. Se così è, e personalmente così siamo persuasi che sia, i risultati delle recenti elezioni amministrative non ci hanno affatto meravigliati, anzi. Vi abbiamo trovato una triste conferma di ciò che andiamo dicendo – e scrivendo – da tempo.
Ci eravamo lanciati in una previsione, per il vero proiettata alla elezioni politiche, quasi scontata.
Ma i nostri lettori non si illudano: non siamo stregoni e preveggenti. Ci limitiamo ad osservare la realtà muniti della giusta dose di disincanto. E di pessimismo.
La riflessione di Pericle non è casuale. Ad essa si rifece Karl Popper nel tentativo di fornire una definizione della democrazia che fosse coerente coi presupposti di una società aperta, come tale tollerante e liberale. Così giungendo alla conclusione che sia irrazionale e sbagliato (per non dire pericoloso) ritenere che la democrazia debba fornire risposta alla domanda “chi deve comandare/governare”.
La domanda razionale, secondo i principi liberali, non può che essere, quindi, “come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”.
Non, quindi, chi debba governare, ma come controllare chi comanda, fino al punto di rimuoverlo dal potere. Questo vogliono sapere uomini fallibili e non dispensatori di verità, che ambiscano a costruire, perfezionare e difendere le istituzioni democratiche, al cui interno possano convivere, liberamente, i portatori di idee ed ideali tra essi diversi e magari persino contrastanti.
Se abbandoniamo, quindi, l’idea di democrazia come governo del popolo (coi suoi tristi corollari potenzialmente illiberali e totalitari), molto più utile è definire la democrazia come il modello di organizzazione sociale incentrato sul giudizio del popolo.
E questo giudizio, più che non l’investitura di un futuro e (auspichiamo) improbabile governo grillino, ci è stato reso dal voto.
Per composizione sociale, e per analisi dei flussi elettorali, infatti, ci pare che il grillismo abbia molti tratti del voto di protesta, della critica dell’esistente, serrata fino all’iperbole, fino all’insulto. Certo, qualche proposta senz’altro la si trova. E siamo disposti a concedere il beneficio del dubbio sulla sua praticabilità. Ma restiamo vaccinati contro le ricorrenti epidemie protestatarie, e quindi al di sopra di ogni sospetto di simpatia, collateralismo, ammiccamento.
E sosteniamo che la marea di voti raccolti dai grillini non è liquidabile come il carducciano “fango che sale”. Come dovrebbe preoccupare – ma pare preoccupi assai meno dei voti del movimento cinque stelle – la maggioranza silenziosa dei non votanti, degli astenuti, delle schede bianche.
Anzi, tentare di liquidare il voto come una sbornia passeggera, come se fosse una ricreazione elettorale, è un modo irresponsabile di leggere la realtà, un conveniente bidè per la coscienza della classe politica, affetta da inguaribile autismo.
Perché le ragioni del voto (e del non voto) sono messe in fila dai fatti, dalle cronache non di oggi, ma di almeno l’ultimo quarantennio della vita di questo paese.
E ci credano i nostri lettori: la crisi finanziaria ha sicuramente il suo peso, ma rischia di essere solo il colpo di grazie su di un paese che da troppo tempo viveva al di sopra delle proprie possibilità senza volersene rendere conto, come ricordò Guido Carli nell’Intervista sul capitalismo italiano concessa a Scalfari (e correva l’anno 1976). E senza prendersi la premura di agire di conserva.
Rincresce, poi, dover assistere al disappunto dei leader della sinistra italiana, che paiono lamentarsi solo del voto che a loro viene sottratto, deprecando lo spreco, lo sperpero, la prodigalità di una così preziosa risorsa. Proprio nel momento in cui, ci immaginiamo, pare a sinistra pronto il fatale riscatto, testimoniato dall’ennesima infatuazione per il vincente di turno: oggi Hollande in Francia, come un tempo Blair in Inghilterrra, Zapatero in Spagna o ancor prima sempre Jospin oltralpe.
Come se la realtà di cui siamo testimoni fosse imputabile sempre e solo all’avversario, pur prescindendo dalle specifiche e gravi responsabilità della pseudo-destra italica. Ed il destino non potesse, finalmente, che sterzare a sinistra.
Dimentichi, i leaderini della sinistra, dell’insegnamento di Bobbio, per cui la realtà non è progressiva o conservatrice. E non ci si può attendere per decreto divino il diritto a governare, come se questo fosse inscritto nelle immutabili leggi della Storia, eterno ritorno dell’antico vizio deterministico, e della conseguente convinzione che il futuro prosegua su di un binario già tracciato, sul quale i momentanei successi avversari sono semplici inciampi, modeste soste forzate.
Il voto ha sconfessato un’intera classe politica. Chi ha votato, ha votato contro, o più semplicemente si è limitato a non votare, pur di marcare il suo dissenso, e non se l’è presa con il moderatismo, con la socialdemocrazia, o con qualche altra idea astratta. Ma, molto più prosaicamente, voleva attestare la sfiducia nei confronti di questa classe politica, nominalmente e individualmente intesa.
Magari confidando in un atto di resipiscenza, non dissimile da quelli che, all’estero, impongono ai leader sconfitti di abbandonare l’agone politico, guadagnando così sempre l’onore delle armi.