Ve lo immaginate Tremonti a consigliarvi dove andare a cena? O Roubini al mercato, mentre vi soffia all’orecchio, come se foste a Wall Street, di acquistare carote invece di asparagi, perché quelle si producono ovunque?
E’ un po’ quanto fa Tyler Cowen, economista di fama mondiale, già autore del best seller “The Great Stagnation”, critico gastromico del Washington Post e blogger esperto di cucina etnica, sovrapponendo le sue tre vesti, nel tentativo di suggerire a consumatori e massaie come fare il meglio per l’economia (domestica e non) al supermercato e al ristorante.
In “An Economist gets lunch”, volume da poco pubblicato, il tono volutamente provocatorio e le idee, spesso fondate più sul gusto personale che non sui numeri, fanno pensare che la sua accusa contro l’élite liberal del green food (dai guru del local a Slow Food) bollata come snob, sia soprattutto dettata dalla volontà di creare una nuova corrente conservatrice che, proprio perché parecchio impopolare, farebbe certamente discutere.
Tranne qualche condivisibile idea (“diffida dei posti dove i camerieri sorridono di continuo”, “il cibo è spesso mediocre nei ristoranti più trendy”, “abbi pazienza! se un piatto arriva subito significa che è riscaldato al microonde”), le teorie esposte sono parecchio controverse e discutibili. Per esempio:
“Gli snob del food stanno uccidendo l’impresa”, dichiara Cowen, sostenendo che il Km 0, una nuova forma di autarchia agricola, non è regola da prendere troppo seriamente, poiché in fondo i trasporti contribuiscono solo per il 10% 15% al global warming. Insomma, “vuoi mettere quanto inquina un pomeriggio a zonzo in Mercedes” invece che comprare asparagi che arrivano da un altro paese? Eppure è noto per essere un entusiasta ambientalista.
L’economista si lancia poi nell’elogio dellagribusiness e consiglia il professore, andate meno per il sottile, ché il cibo geneticamente modificato, quello per cui è stato coniato il felice nome di Frankenfood, in fondo c’è per garantire di riuscire a sfamare tutto questo nostro grande mondo.
Quanto al vino, ammette che il cibo americano è migliorato da quando gli americani bevono più vino, e spiega anche che, secondo il principio economico dei sussidi incrociati, gli astemi (categoria che già d’abitudine riscuote poca simpatia) in qualche modo mangiano a sbafo.
Al ristoratore infatti il profitto viene soprattutto dal vino ed è chi più paga (cioè chi ordina una buona bottiglia) a permettere a chi paga meno (l’astemio) di pagare meno, appunto.
Stando ai suoi calcoli sul ricarico dei vini, la regola è progressiva: un vino meno importante verrà rivenduto a 1,5 volte il suo prezzo d’acquisto, un vino più importante fino a quattro volte quanto è stato pagato (in Italia non va proprio così). Se per non fare la figura degli spilorci, statisticamente si tende a scegliere il secondo vino in carta in ordine di prezzo, “Non fatelo!” dice lui, “Pensate al profitto”.
Nell’elogio dei ristoranti etnici, di cui il professore è un vero estimatore, meglio se locati in quartieri defilati o nei centri commerciali, la preferenza cade su quelli come i pachistani che non servono alcool, “perché lo chef sa che i palati dei clienti non saranno mascherati dal vino o dalla birra”. Mascherati? Ma scherza?
Quanto al cibo etnico, la sequela delle ovvietà non si conta e alla fin fine la ragione principale in cui risiede il fascino del cibo esotico sarebbe che è poco costoso, come ben sa chiunque abbia mangiato anche una sola volta nel ristorante cinese sotto casa.
Ora, se spesso ascoltando economisti o politici vien da suggerire “parla come mangi” (ma non viceversa), c’è da sperare che nessun altro della categoria voglia cimentarsi in un’impresa poco convincente come questa.
Altra cosa sarebbe se a consigliare cosa scegliere a tavola fosse un nuovo Luigi Einaudi, che di vino se ne intendeva, oltre che di economia, producendone di ottimi.
fonte: New York Times