Da due sere me ne vado a letto cercando di ignorare il fracasso martellante dello sbattere di pentole e timbri di clacson, che, da Giovedì alle 20.30 puntuali, è tornato a rimbombare provocante per le strade di Buenos Aires.
Era parecchio che non udivo la rumorosa e ritmica protesta del “cacerolazo”, e, quasi inconsciamente, ho percepito nuovamente quel brivido di angoscia, quell’amarezza frustrante di quel lontano, ma ancor vicino, 2001 in tutta la sua drammaticità.
Questa volta, affacciati ai balconi con le loro pentole in mano, o attaccati al clacson delle loro automobili bloccate nel traffico, i manifestanti recriminano al governo alcune questioni, che ormai da mesi provocano un clima sempre più teso.
La convocazione del cacerolazo attraverso il passaparola, oggi trova la sua massima efficacia attraverso i social networks. Da alcuni giorni, infatti, sulle bacheche di Facebook di migliaia di argentini veniva incollato il seguente invito a partecipare.
“Per un’ Argentina come tutti vogliamo, diciamo BASTA.
Basta alla mancanza di medicine.
Basta al blocco delle esportazioni e importazioni.
Basta alle restrizioni sul dollaro.
Basta Ciccones (riferendosi alla causa che coinvolge il vicepresidente argentino)
Basta violenza verbale.
Basta espropriazioni.
Basta all’impunità.
Basta all’autoritarismo.
Basta al non dialogo.
Basta all’insicurezza.
Basta alla corruzione.
Se questo non è il modello di paese che vuoi, per favore diffondi questo messaggio. Grazie.”
In molti hanno aderito, ma basterà il rumore aspro delle pentole a far valere queste recriminazioni? Non è forse meglio continuare a pregare pacificamente per la patria?