Il cielo plumbeo del 20 maggio non mi intimoriva (almeno non intimoriva me, i miei familiari erano di tutt’altro parere ), forte, soprattutto, delle (tragiche) passate esperienze invernali e delle previsioni di pioggia molto debole; anche se, c’è da ammetterlo, il grigio del cielo, riflesso nei colori della terra, dona al paesaggio un tocco di meravigliosa e disincantata introspezione.
Così, montato sui pedali, mi riversavo in quelle strade che, nei giorni feriali, m’accolgono come distratto e pensieroso automobilista.
I percorsi da poter scegliere erano due: uno dritto nel cuore del Vulcano Laziale, il monte che guarda Roma sin dalla culla, l’altro costeggiandolo. Ho scelto il primo, anche se più duro, dato che la natura e la quiete dei boschi sono come cori di sirene per il ciclista.
Superati gli “inurbati” Castelli Romani, pedalando nel cono del vulcano, la natura agreste del Lazio cominciava a palesarsi: prati con i cavalli al pascolo, piccole aziende agricole, il rumore del traffico che andava via via attenuandosi. Rimaneva, però, un postumo di città. Nascoste nella parte ombrosa della strada, quasi come a volersi nascondere da un habitat che non appartiene loro, una serie di prostitute africane cingeva i bordi della strada.
Mentre una di quelle ragazze mi invitava a sostare con lei, una riflessione prendeva forma: pensavo a quale strano vincolo l’universo c’avesse costretto.
Una ragazza strappata alla sua terra, seduta su di una poltrona a migliaia di km (e centinaia di culture di distanza) dalla propria casa, che sta lì ad offrire ad un ciclista, desideroso di far tutt’altro, una “pausa”. Un incontro brutalmente normale ai nostri giorni e, al contempo, paradossale. Un vincolo, al quale Borges dedicò queste parole:
“Lo guardo. Penso all’artigiano che lavorò il bambù e lo piegò affinché la mia mano destra potesse stringerlo bene nel pugno.
Non so se vive ancora o è morto.
Non so se è taoista o buddista o se interroga il libro dei sessantaquattro esagrammi.
Non ci vedremo mai.
E’ sperduto tra novecentotrenta milioni.
Qualcosa, tuttavia, ci lega.
Non è impossibile che Qualcuno abbia premeditato questo vincolo.
Non è impossibile che l’universo necessiti di questo vincolo.”
(da La cifra, 1981)
Superato il passo e la seguente discesa, scorsa veloce,giungevo poi nella bellissima valle che giace tra i Monti Lepini e i Colli Prenestini, che, con il suo dolce paesaggio collinare, non ha nulla da invidiare alla ben più rinomata Maremma. Fra le colline rosse di papaveri come quelle di Monet, ecco Artena, adagiata sul suo ripido colle, un dolce presepe con le montagne come sfondo, dove il viaggio proseguiva lento e curioso.
Mi rattrista pensare che l’uomo abbia stuprato quei paesaggi in prossimità di Colleferro, riempiendone le viscere con gli scarti più pericolosi della sua industria chimica, tanto che le morie di animali non sono eventi rari; per ingordigia l’uomo uccide il bello e se stesso.
Eccomi in prossimità dell’ultima scalata, 600 metri e sarei giunto a Segnii, la città vecchia (quasi) quanto Roma. La strada dritta e le pendenze importanti non regalavano nulla ai muscoli. Salendo, la valle, lasciata alla mia sinistra, scendeva sempre più, mentre Segni, finalmente, appariva allo sguardo. Inerpicandomi per le strette e ripide vie della parte nuova del paese, giungevo alle porte della città vecchia, meta del viaggio.
Passate le imponenti mura ciclopiche, paragonate da qualche commentatore, forse per campanilismo, a quelle micenee, scendevo di sella per osservare la facciata neoclassica della cattedrale di Santa Maria Assunta; l’interesse volgeva però nei riguardi di un’altra chiesa, con parecchi secoli in più sulle spalle e qualche metro in più da scalare rispetto alla cattedrale.
Arrivato sulla cima del paese eccola, San Pietro:
(foto presa in internet)
L’odore del tempo che passa è fortissimo. Ci si sente ridimensionati se, anche solo per un attimo, si riescono a percepire i millenni di storia che ha attraversato questa costruzione nelle varie forme che ha assunto, a immaginare i milioni di sguardi che si sono posati nel tempo, si comprendono fino in fondo le parole “anima passeggera presa in un giro immortale”.
Ci si perde ammirando le possenti mura esterne, formate da grossi massi poligonali, base del tempio dedicato a Giunone Moneta (lo stesso del Campidoglio), la parte sinistra della chiesa, d’origine paleocristiana, costruita con grosse pietre squadrate, sorta sulla cella mediana del tempio, il campanile duecentesco con bifore, rimaneggiato (malamente) nel 800 con pietre troppo bianche. L’interno che, ugualmente, conserva traccia, di ogni passato del luogo di culto.
Pochi metri più avanti una cisterna romana e, ancora più in là, il belvedere, che domina tutta la valle. Mentre sedevo su di una panchina ricercavo con lo sguardo tutti i paesi visitati, e lì riconoscevo Acuto, Fiuggi, Anagni, Castel San Pietro, Capranica Prenestina, di cui, spero, di scrivere presto.
Per il ritorno la decisione di passare tra i monti in direzione di Rocca Massima.
Con l’immagine di una bici che va silenziosa fra freschi pascoli appenninici vi do appuntamento al prossimo post!