R. Guttuso, I Calciatori, 1965
In un inizio settimana relativamente tranquillo in cui procure ordinarie, sportive ed imputati non occupano le primissime pagine dei quotidiani accanto all’ormai maledettamente frequente scossa di terremoto in Emila-Romagna, desidero staccarmi per quanto possibile al di sopra delle umane, troppo umane vicende pallonar-giudiziarie e spaziare nell’iperuranio delle idee. Sorge spontanea sia nell’appassionato che nell’osservatore più distaccato l’annosa domanda sulla valenza essenziale del mondo del pallone. Il calcio è ancora un semplice sport? Oppure è una grande pantomima rappresentata ad arte per infiocchettare un prodotto perfetto per spillare quattrini a tifosi inebetiti, che nonostante i continui scandali e le ormai abituali assurdità non appena ri-inizia la stagione accendono la TV (ormai andare allo stadio è un lusso od una fatica per pochi e, si dice, genera soprattutto molti meno profitti della commercializzazione nel mondo massmediatico) con lo spirito di un bambino che per la prima volta assiste ad una nevicata? O forse, citando quella fonte inesauribile d’ispirazione che è Pasolini, il gioco del calcio sarebbe «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo»? Probabilmente tutte e tre le visioni del mondo-pallone, tra loro profondamente diverse, hanno una loro intrinseca ragion d’essere. Se la prima è certamente naif, la seconda è ideologica e la terza mistica. Nel fenomeno calcio ci sono certamente tutte e tre queste componenti: l’ingenuità e la semplicità del gesto tecnico, fruibile nella sua pura immediatezza; l’economicismo sfrenato della nostra civiltà occidentale, riprodotto e spinto fino a limiti parossistici nel microcosmo che gira intorno alla palla che a sua volta ruota sul campo; l’idealizzazione e la glorificazione di personaggi od eventi che talvolta divengono protagonisti di una rappresentazione scenica corale contemporanea. Ridurre il tutto ad una di queste tre componenti- tenendo sempre presente una quarta componente sullo sfondo, che è il disinteresse totale per questo sport, atteggiamento legittimo ma che purtroppo preclude ogni sano confronto dialettico- significa minare pesantemente una comprensione genuina e non semplicisticamente riduttiva del mondo del pallone. Lo scandalo scommesse recentemente esploso ha così avuto l’effetto immediato di fornire uno straordinario assist (metafora per nulla casuale) a quanti anatemizzano il mondo del calcio come un terribile sortilegio che ottenebra le menti di milioni di persone. Quante volte ci si sente dire sdegnosamente: «Ah, quindi tu segui il calcio?» praticamente nello stesso modo con cui ci si rivolgerebbe ad un negazionista della shoah. In momenti come questi è certamente difficile difendere l’immagine di un calcio ‘puro’ ed immacolato rovinato da qualche mela marcia, e tale operazione non avrebbe granché senso perché sarebbe un atteggiamento ugualmente ideologico ed aprioristico. Se, dopo lo scandalo del 1980, le scommesse e le combines ritornano ciclicamente come eventi improvvisi ma non così inaspettati nel panorama italiano, qualche domanda è giusto porsela. Accordarsi sul risultato di una partita da parte di giocatori o dirigenti, o tutti e due, ai fini di realizzare un utile economico derivato dalla scommessa sulla partita medesima significa falsare la componente sportiva e quella ‘sacrale’, ed innalzare la componente economica ad unico ed indiscusso principio ordinatore. Oltre naturalmente a violare un certo numero di norme del regolamento sportivo e del codice penale, dettaglio non da poco. Il calcio in tale maniera perde totalmente il suo senso agonale ed epico, e diventa un mero feticcio dell’arricchimento facile e disonesto, al pari di qualsiasi azione criminale non così rara nel sistema economico e finaziario ordinario. Tradire i tifosi non sembra infatti poi così diverso dalle tante, troppe truffe che nel corso degli anni hanno messo in ginocchio piccoli e medi risparmiatori nel campo borsistico ed obbligazionario. La sottile differenza sta forse nel fatto che il tifoso, quando compra un biglietto per una partita o un abbonamento alla Pay Tv per un campionato, non pensa assolutamente di andare incontro ad un possibile ‘rischio’, che non è di natura economica bensì affettiva e psicologica. Il tifoso di una squadra ma anche il semplice esteta che guarda un match tra due squadre per lui tutto sommato ‘neutrali’ non è di sicuro interessato a godere di una rappresentazione pianificata a tavolino e recitata alla buona sul prato verde; egli desidera invece godere del gesto straordinario, dell’atto unico ed irripetibile del grande campione o del più oscuro dei gregari che può da un momento all’altro cambiare la partita. Il calcio è un grande spettacolo, si dice giustamente. Ma il bello del suo svolgimento è il repentino ed imprevedibile rovescio della sorte grazie ad un tiro saettante o ad una parata miracolosa. La ragione della sua diffusione planetaria, di sicuro anteriore all’epoca della globalizzazione anche mass-mediatica che ha inevitabilmente diffuso molti sport prima più circoscritti a determinate aree geografiche e culturali, sta forse nel fatto che il calcio è uno sport straordinariamente democratico. Eduardo Galeano, uno che la libertà l’ha vista sradicata dalle dittature militari prima nel suo Uruguay e poi nell’Argentina dove si era rifugiato, non a caso ha definito il calcio come “arte dell’imprevisto” ed ha più volte raccontato come il pallone rappresenti una forma di riscatto, un’opposizione al potere costituito e dominante in tutte le sue forme.
Per questo, tornando alla prosa delle nostre vicende quotidiane, laddove un Doni, un Mauri, un Carobbio od un Gervasoni si accordino eventualmente per aggiustare un risultato e realizzare un profitto per sé e per un manipolo di losche figure criminali che del calcio come sport e come rito non hanno il minimo interesse, essi non infangano solamente il loro ruolo di professionisti ed il loro onore di uomini piccoli piccoli ma commettono un vero e proprio sacrilegio. La giustizia, ordinaria e sportiva, seguirà il suo corso fatto di patteggiamenti, condanne e ricorsi. La speranza è che faccia un buon lavoro, nei limiti dei suoi tempi e delle sue possibilità. Inutile dire come l’ennesima soluzione all’italiana, spesso definita in via gergale a ‘tarallucci e vino’, non faccia che spazzare sotto il tappeto la polvere tossica di questo scandalo. L’inquietante certezza è che ormai il dubbio sull’autenticità del pallone aleggi come uno spettro diafano ma ingombrante, mettendo seriamente in crisi quell’aspetto metafisico del calcio stesso che ho fin qui iperbolicamente esaltato. Non serve sperare in un deus ex machina che risolva l’impasse, ma far passare con forza il messaggio, partendo dal più improvvisato campetto di periferia fino al tabellone di S.Siro, che chi trucca un risultato non solo vende una partita ma anche sé stesso e la propria anima calcistica.