Al bar questa mattina. Prima di entrare in ufficio un secondo caffè non me lo può togliere nessuno. E’ una questione di vita sociale. Senza comprometto il mio rapporto con il mondo. Entro, prendo il giornale, lo apro e, dirigendomi verso il bancone, comincio a leggere un pezzo sul CIE di Torino.
Il barista mi guarda e non comincia, come sempre, a sbraitare imitando Galeazzi o Bruno Pizzul, piuttosto vuole parlare di quel pezzo. Io no. Voglio solo leggerlo. Lui insiste. “Sei attratto da 117 ragazzi che sono dentro?” – mi domanda. Ha letto il pezzo. Centodiciassette è il numero che attrae la mia curiosità. Lo conosce. Anche io lo conosco perché quei ragazzi li ho visti di persona.
Pochi giorni prima avevo avuto il permesso di entrare dentro il centro. Un’esperienza particolare. Da far fare a tutti quelli che parlano di “emergenza immigrati”, “emergenza rom”, di “ognuno a casa loro”. Chiusi in gabbia come canarini, sotto un sole cocente e con acqua a temperatura ambiente per dissetarsi.
“Ti vergogni a parlare con me?” – mi dice un ragazzo che è dall’altra parte della gabbia. E’ pieno di risentimento. E’ più piccolo di me, avrà 25 anni. Arriva dal Marocco, ma prima di venire a Torino è stato 5 anni a Napoli dove ha imparato a fare il pizzaiolo. Il telefonino gli squilla in continuazione, ma lui non risponde: è la donna con cui viveva che chiama. Lui non l’ha voluta sposare: “Volevo che sapesse che non lo facevo solo per il permesso di soggiorno” – mi dice. E’ stato ingenuo perché adesso è dentro il centro perché le ha voluto dimostrare che non la voleva utilizzare per il permesso di soggiorno.
Passando tra le gabbie tutti ti chiamano: chi per l’acqua della doccia che è o troppo fredda o troppo calda; chi per l’aria condizionata; chi per il cibo (anche loro sono intolleranti, ma non possono scegliere cosa mangiare).
Quando esco non ho parole. La sera dopo cena crollo in un sonno profondo. Quel posto mi ha prosciugato, ed io ci sono stato solo due ore, loro ci stanno anche sei mesi.