La parabola del Commissario tecnico: da Robespierre inflessibile ad allenatore machiavellico
Dopo i mondiali sudrafricani del 2010 la popolarità degli azzurri era finita ai minimi storici. A soli quattro anni dal trionfo in Germania, la delusione e la rabbia nazional-popolare si riversarono su quel gruppo sfortunato ed in definitiva non all’altezza di difendere il titolo di campione del mondo. In quell’occasione Lippi scelse di lasciare a casa i bad boys Balotelli e Cassano in nome della tranquillità ambientale ed emotiva dello spogliatoio, e di affidarsi a giocatori caratterialmente più mansueti ma che tecnicamente non erano certo il meglio che il panorama italiano potesse offrire.
Prandelli, abilissimo nel cavalcare gli umori popolari, scelse invece di fondare il nuovo progetto su Cassano, e di aprire per la prima volta le porte della nazionale maggiore a Balotelli. Ad onor del vero, l’operazione di restyling del Cesare nazionale per circa un anno e mezzo ha avuto esiti confortanti, almeno sul campo: l’Italia ha chiuso al primo posto ed imbattuta il girone di qualificazione ad Euro 2012, mostrando un gioco a tratti piacevole. L’attacco mignon formato da Cassano e Giuseppe Rossi è stata una mossa coraggiosa che a conti fatti ha pagato: la rinuncia al grande centravanti d’area, marchio di fabbrica italiano, e la scelta di un reparto tutto tecnica e dinamismo agli inizi sembravano agli occhi di molti un azzardo destinato a fallire.
Per salvare molto italianamente le apparenze e per pararsi sempre molto italianamente le proprie azzurre natiche da eventuali colpi di testa extra calcistici dei suoi giocatori Prandelli scelse di varare il “codice etico”. Con questa formula ambigua, a metà tra il giuridico ed il moralistico, ha cercato di dare un indirizzo apparentemente nuovo al ruolo del Commissario Tecnico. In poche parole, chi sbaglia paga: De Rossi (non nuovo ad episodi del genere) tira una gomitata ad un giocatore avversario durante una partita di Champions League con la Roma? Per punizione salta l’amichevole successiva della nazionale. Balotelli prende un rosso ogni tre partite col Manchester City e fuori dal terreno di gioco ne combina più di Pierino? Per qualche mese non viene convocato, e nell’intenzione di Prandelli è così messo dietro la lavagna a riflettere sulle proprie marachelle. Gilardino in ritiro con la Nazionale parla troppo di mercato e sembra poco concentrato? Non gioca perché non è sereno. Marchetti spintona l’arbitro in un Udinese-Lazio di fine stagione? Si scorda la convocazione per l’Europeo. Osvaldo si becca diverse giornate di squalifica per condotta violenta? Anche per lui niente viaggio premio in Polonia ed Ucraina.
La sfiga, quella entità metafisica che nel calcio e nella vita spesso si presenta sul più bello, vuole che nel giro di pochi mesi sia Cassano che Giuseppe Rossi incappino in due problemi fisici abbastanza seri. Quello cardiaco di Cassano, che poteva addirittura decretare la fine della carriera del Pipe de Bari, e quello più ordinario ma sempre dannatamente spiacevole occorso al ginocchio di Rossi. Il povero Pepito, baciato dalla dea sfortuna, si è poi nuovamente rotto i legamenti e dovrà stare fermo fino a 2013 inoltrato.
Il progetto tecnico è così naufragato. Seguito a ruota da quello etico. A calare la ghigliottina sulla linea giacobina tracciata dal tecnico di Orzinuovi ci ha poi pensato la vicenda delle scommesse, che ha definitivamente affossato il moralismo prandelliano ed ha riportato in auge il pragmatismo ed il cerchiobottismo che nel panorama italiano, non solo sportivo, sono la norma e non l’eccezione. Non è questione di purezza d’animo o meno, ma la riproposizione in ambito calcistico dell’annosa distinzione tra il valore costitutivo o regolativo di determinati principi, tra il dover essere e l’essere.
Come sempre accade, ed a maggior ragione nel caso di un tecnico che dell’etica aveva fatto il proprio vessillo, è arrivato il redde rationem di alcune scelte francamente discutibili, su tutte quella di lasciare a casa l’indagato Criscito e di tenere in gruppo l’indagato Bonucci, solamente sulla base del fatto che il primo ha ricevuto un avviso di garanzia mentre il secondo no. A ciò si aggiunga il fatto molto poco opportuno di inserire il figlio Niccolò, a pochi giorni dalla partenza per l’Europeo, nello staff della nazionale come preparatore atletico. Il 28enne Prandelli jr. ha avuto l’abilitazione ad esercitare la professione solamente nella sessione 2010/2011; difficile credere che fosse la persona più esperta e qualificata, per quanto sia magari un giovane serio e preparato. Il nepotismo prandelliano è stato giustificato da Prandelli padre con l’argomentazione ben poco persuasiva che Prandelli figlio è lì perché se lo merita e che, captatio benevolentiae rivolta al sentimentalismo familistico all’italiana, ogni padre si augura di lavorare col proprio figlio. Non saremo certamente ai livelli di Umberto Bossi e Trota, ma proprio perché l’opinione pubblica negli ultimi mesi è stata maniacalmente attenta a questioni del genere Prandelli e la Federazione potevano farsi qualche scrupolo in più. Se non “etico”, quantomeno deontologico.
A soli tre giorni dall’inizio dell’Europeo azzurro, battesimo di fuoco contro i campioni in carica della Spagna, il clima dentro e fuori la Nazionale è tutto fuorché sereno e concentrato sulla sola competizione sportiva. Troppe le vicende e troppi i protagonisti che trasversalmente hanno minato la compattezza di un gruppo che per forza di cose non può nemmeno chiudersi in sé stesso a riccio, come accadde invece nel 2006. Per questo non comprendo per niente quanti affermano, volendo parafrasare Nietzsche ma rendendo di fatto onore al celeberrimo “ad minchiam” coniato da Franco Scoglio, che “ciò che non uccide fortifica” e che “anche nel 2006 tirava una brutta aria”. Ma questa è un’altra storia, da affrontare magari in un altro post.