Mercato e Libertà“Il lavoro non è un diritto”

Il fatto che il Ministro Fornero stia sulle prime pagine dei giornali per aver detto un'ovvietà testimonia quanto la retorica del lavoro sia ancora profondamente radicata in questo paese. Retorica ...

Il fatto che il Ministro Fornero stia sulle prime pagine dei giornali per aver detto un’ovvietà testimonia quanto la retorica del lavoro sia ancora profondamente radicata in questo paese.

Retorica che non trova appigli nel mondo reale, fatto di disoccupazione, sottooccupazione e bassi salari anche per via delle rigidità e delle inefficienze del mercato del lavoro così strenuamente difese dal sindacato più conservatore, la CGIL.

Dovremmo forse parlare di una mitologia del lavoro: l’idea assurda che le condizioni di lavoro le facciano i ‘diritti’ e non la produttività dei fattori, o, come si diceva un tempo, che il salario sia una variabile indipendente avulsa dal mondo reale.

Questa mitologia è uno dei tanti ostacoli culturali che l’Italia deve affrontare per creare occupazione, aumentare i salari, ricominciare a crescere. Rappresenta cioè una delle palle al piede che devono essere sconfitte sia sul piano intellettuale che valoriale per uscire dal declino.

Ritengo un errore la riforma Fornero del lavoro, che irrigidisce il mercato del lavoro e rende più costose le assunzioni per le imprese. Era meglio non fare nulla: primum non laedere.

Nonostante ciò, è una buona notizia che qualcuno metta in discussione le romantiche assurdità che ancora circondano il mondo del lavoro.

Mettiamo un po’ di cose in chiaro:

  1. Non è mai esistita un’età dell’oro senza precariato. Prima delle riforme Treu e Biagi c’era una disoccupazione enorme, strutturale, e in continuo aumento. Questo è l’Eldorado difeso dalla CGIL: un mondo che non funzionava venti anni fa, e non funzionerebbe oggi. I sindacati sono abituati ad anteporre gli interessi degli iscritti a quelli dei lavoratori in generale: lo hanno sempre fatto.
  2. Il salario, e tutti i fringe benefit associati, sono pagati dalla produttività del lavoro: se questa non aumenta o diminuisce, è necessario che i salari non aumentino o diminuiscano. Ciò che aiuta la produttività, la crescita, l’accumulazione del capitale, l’innovazione tecnologica, aiuta anche il lavoro.
  3. Tutti i ‘diritti del lavoro’ hanno un costo, dunque si pagano con salari inferiori, dato che sono pagati entrambi dalla produttività del lavoro. Non esistono pasti gratis.
  4. Le misure fiscali e previdenziali sul lavoro, sia se pagate dal lavoratore che dal datore, sono pagate dalla produttività: il ‘cuneo fiscale’ riduce i salari.
  5. Aumenti del costo del lavoro non finanziati da aumenti di produttività riducono la competitività e la redditività degli investimenti, e dunque fanno scappare i capitali, producendo stagnazione.
  6. Pe ragioni politiche, sia la riforma Treu che la riforma Biagi non hanno intaccato il difetto fondamentale del sistema precedente: l’enorme rigidità del mercato del lavoro che impediva ai lavoratori meno produttivi di entrare a far parte del mercato ufficiale, rimanendo disoccupati o lavorando in nero. Si è creato un sistema a due corsie, i privilegiati e i sottoccupati, per non toccare i privilegi dei primi. La retorica dell’estensione dei privilegi anche ai secondi è vuota, per quanto visto nei punti precedenti.
  7. La questione è essenzialmente di rapporti di potere: un sistema duale impone il 100% dei costi congiunturali sull’anello debole del mercato del lavoro, e i privilegi degli ‘insider’ sono pagati dalla disoccupazione o la sottoccupazione degli altri lavoratori. Purtroppo politicamente gli ‘outsider’ non contano nulla, ed essendo l’ultima ruota del carro il processo legislativo non li considera.
  8. La contrattazione nazionale, imponendo salari simili in contesti diversi in termini di produttività e livello dei prezzi come la Lombardia e la Sicilia, comporta alta disoccupazione e bassa competitività nelle regioni più povere. Quando si cerca di alzare i salari prima che aumenti la produttività, il risultato è la stagnazione e la disoccupazione.

Pietro Monsurrò