Fra meno di un mese scadrà il mio contratto di lavoro.
Voglio essere chiaro fin da principio: questo non è il primo lavoro che faccio nella vita! Ci tengo a precisarlo perché questo è un luogo pubblico e ne vale del mio onore: non è il primo lavoro della mia vita, ma è il primo lavoro con un contratto serio della mia esistenza ed è solo per questo che ci sono affezionato.
Ho svolto tantissime mansioni nel mio vivere fino ad ora e le potete controllare sul mio curriculum vitae: consegne in bicicletta, operatore in un fast food, distributore di volantini, tutto fare in una pista sul ghiaccio, compilatore di questionari, venditore di contratti satellitari, allestitore, portiere di calcio e molto altro ancora. Lo dico e lo sottolineo per dimostrare che faccio parte di una categoria virtuosa all’interno del panorama dei giovani italiani e che non mi inserisco nella categoria di “giovani che non studiano e non cercano lavoro” che emerge dai dati Istat.
Sono un uomo di mondo insomma. Però a questo contratto ci tengo particolarmente: ho le ferie, le malattie, i permessi normali, i permessi studi, gli straordinari pagati e tra un po’ vogliono farci anche l’assicurazione sanitaria! Mi sento un po’ più sicuro del solito, punto.
Capisco di risultare meschino e interessato solo a delle bassezze, che in fin dei conti la vita non si basa esclusivamente sul profitto, sulle apparenze, che il prodotto interno lordo dovrebbe essere calcolato anche sulla felicità e sul benessere delle persone (e che tante altre cose). Per far comprendere la mia situazione, però vorrei chiedervi se qualcuno ha vissuto ciò che ho vissuto io: mandare un curriculum, essere chiamato per un colloquio di lavoro, essere assunto per le tue sole capacità e restare sbigottito ogni qualvolta che i tuoi colleghi, rispondendo alle tue domande, ti confermano che l’azienda per cui lavori ti tratta come un lavoratore e non uno schiavo. Non è che prima avessi lavorato nelle miniere intendiamoci: ma a ventinque anni per la prima volta non vengo assunto come stagista, non vengo pagato a provvigione, o con la ritenuta d’acconto, o fuori busta paga. Ricordo un tempo così maledetto in cui il mio ex datore di lavoro mi chiedeva il certificato medico non per pagarmi i giorni di malattia concessi dal medico, ma perché voleva che gli dimostrassi che non avevo bigiato per pigrazia (poi sulla busta paga il giorno in cui ero stato malato risultava infatti vuoto). Che tempi! Gli chiesi per un anno, se per favore, mi poteva fare una fotocopia del mio contratto di apprendistato, ma lui si rifiutava sempre. Invece in questo lavoro mi hanno consegnato la fotocopia del contratto il giorno stesso della mia assunzione! Consegnata in una cartellina blu lucente con il logo dell’azienda: fantastico! Ora è qui dinanzi a me, lo guardo e lo venero il mio contratto, perché mi ricorda dei tempi oscuri che ho superato, perché mi fa sentire più in alto nella scala sociale.
Ma ha una scadenza: 30 giugno 2012.
Non è neanche la prima volta che mi trovo in questa situazione, vogliate intendermi. Ho superato nella mia vita di giovane lavoratore già diversi periodi di prova e scadenze. Stavolta però è diverso.E non voglio nemmeno fare questioni e discutere del precariato, della flessibilità, della nuova riforma del mercato del lavoro, del ministro Fornero e dei sindacati, del nuovo presidente di Confindustria , delle richieste della BCE, del modello scandinavo e di quello tedesco, della concertazione, degli emendamenti dei partiti, di Pietro Ichino, di San Precario. No questo è solo un discorso intimo tra me e questo mio contratto chiuso in questa cartellina blu.
Perché non è facile avvicinarsi alla scadenza di un contratto di lavoro, diciamocelo chiaramente, non facciamo sempre gli uomini duri che non soffrono. Io non sono di Milano e sono qui in Lombardia per lavorare. Se non mi rinnovano questo contratto ovviamente la mia vita non finirà, questo è evidente, ma è altrettanto evidente che dovrei nel caso rivedere le mie prospettive e mosse per il futuro: rimanere qui, cercare lavoro altrove, tornare a casa, ritirarmi sulle montagne, andare in Argentina, piantare ortaggi in Australia, diventare un rottamatore del PDL, scrivere un libro che mi renderà ricchissimo. Se questo lavoro fosse stato nella mia città le cose sarebbero state diverse, ma vi ripeto e vi voglio specificare che non mi sto lamentando, che non sto elevando il mio caso personale a problema collettivo: qui a Milano la maggior parte dei giovani lavoratori vengono dal Sud e tutti vivono questa condizione che non è felice o infelice, è solo una condizione che va accettata e sostenuta. Perché non è che voglio dare ragione al ministro del Welfare, al suo sottosgretario Martone, al defunto Padoa Schioppa e agli altri illustri commentatori della situazione dei giovani italiani, ma forse è vero che dovremmo farci una ragione che il mondo è cambiato, ed adattarci con il sorriso al nuovo del mercato del lavoro (spero comunque che nessuno degli aderenti centri sociali che ho frequentanto nell’ultimo decennio legga questo mio articolo).
Al di là però del mio adattarmi ai tempi, dall’allontanarmi dalle idee staliniste e dalla pratica quotidiana di una religione orientale che mi armonizza con il mondo, devo ammetterlo: ho l’ansia! E più passano i giorni, più l’ansia aumenta, perché insomma la tua vita dipende un po’ anche da quel contratto lindo e pinto chiuso in quella cartellina blu. Anche il mondo intorno a me cambia in relazione a quel contratto: in questo anno di lavoro ho catalogato i miei colleghi in base alla loro scadenza contrattuale e a cio’ che li aspettava dopo: Paolo e Stefania per me scadevano il 31 marzo e poi sarebbero passati ad indeterminato, Massimo e Jacopo scadevano il 31 maggio per passare anche loro ad indeterminato, poi c’è Morgana che scade il mio stesso giorno avendo cominciato a lavorare insieme a me ed infine Ivan, Gaia e Francesca scadono anche loro il 30 giugno ma sono assunti tramite agenzia interinale quindi rientrano in un’altra categoria dello spirito. Voglio molto bene ai miei colleghi, ma ad ogni loro scadenza e loro relativo rinnovo cambiavano i miei calcoli astrali sul mio futuro (” Se hanno rinnovato lui ad indeterminato vorrà dire che l’azienda non è crisi, allora posso stare sicuro…” pensavo ogni volta).
Per non parlare poi della mia famiglia e degli amici più stretti. Da un mese ormai nel bel mezzo di qualunque conversazione si inserisce questo dialogo: Loro “Allora, hai notizie sul contratto? Qualche novità? Quando ti scade, il 30 giugno vero? Percepisci qualcosa nell’aria?”; ed Io in modalità standard “No, cioè nessuna novità, cioè il contratto scade il 30 giugno e penso cioè che fino alla settimana prima non saprò niente perché questa è la prassi aziendale, cioè nell’aria non percepisco niente, cioè comunque se hanno rinnovato i miei colleghi ad indeterminato vuol dire che ci sono speranze, cioè vuol dire che l’azienda non è in crisi, cioè ma comunque io sono giovane, cioè, ho 26 anni, devo ancora finire la specialistia, cioè alla fine il mondo del precariato è così, poi cioè mica ho 40 anni che devo preoccuparmi che nel caso succeda cioè comunque ho tutta la vita davanti, poi cioè è un momento difficile che magari ti licenziano cioè non perché non sei bravo o non vali ma magari per problemi aziendali, tutti sono in crisi, poi cioè, qualunque azienda, tu devi fare il tuo e lavorare come sai, cioé non può stare mica sempre a pensare ogni mattina se ti rinnovano oppure no, cioè altrimenti non vivi, cioé bisogna stare sereni, cioè, cioè, cioè, cioè….”.
Rispondo questo ogni volta a mamma, papà, sorella, cognato, nonna, nonno, cugino, cugina, amico del palazzo, amico del campetto, amico milanese, collega di lavoro. Sempre la stessa risposta, sempre alla stessa domanda. Perchè di fronte al precariato bisogna essere forti, stoici, sicuri di sé e senza ansie: è la Storia, mie cari giovani, che ce lo chiede.