A mente freddaIl PD cambia, temo, perché tutto resti uguale

"Il PD d'improvviso sembra uscito dal letargo", ha sentenziato poco fa Massimiliano Gallo. L'autore quando scrive di politica merita sicuramente più attenzione di quando si ostina a parlare di calc...

“Il PD d’improvviso sembra uscito dal letargo”, ha sentenziato poco fa Massimiliano Gallo. L’autore quando scrive di politica merita sicuramente più attenzione di quando si ostina a parlare di calcio, e in effetti coglie alcune grandi manovre di rilievo all’interno di quella che, nei fatti, è la principale forza politica del paese. La segreteria apre alle primarie, comprendendo la necessità di una nuova legittimazione a prova di bomba, mentre le varie anime si stanno preparando al confronto vero, che sfoci poi nella creazione di una proposta di governo in uomini e temi.

Anch’io spero davvero che le cose vadano così, e dovrebbero sperarlo tutti, anche chi il PD non lo voterà mai, perché uno sviluppo del genere sarebbe un passo avanti fondamentale in una politica asfittica e incapace di uscire dal piccolo cabotaggio, visto che porrebbe il resto del sistema di fronte alla necessità di adeguarsi o perire.

Lo spero, ma non lo credo. Perché a uno sguardo più profondo (e anche più distaccato, visto che ora sono a un oceano di distanza da queste cose e mi arrivano solo segnali indiretti, forse incompleti ma attentamente filtrati dei rumori di fondo) almeno alcune delle dinamiche che si sono messe in moto nel PD mi sembrano assai più legate al filo della continuità che della rottura col passato.

Lascio da parte, almeno per ora il caso Renzi, che è effettivamente un outlier nei sommovimenti interni all’area democratica, e che per questo temo non avrà successo, anche per il fatto che attualmente sembra essere meno attivo di altri. Prendo però in considerazione soprattutto il più anziano Stefano Fassina, che ormai da tempo si sta coltivano una sua posizione specifica e che ora è uscito allo scoperto con maggiore decisione. Proprio la posizione di Fassina e dei suoi (ma per converso si potrebbe dire lo stesso dell’opposto gruppo raccolto attorno a Europa, quindi il discorso che faccio non ha un valore di critica personale) mi sembra molto simile alle tipiche operazioni da corrente interna nel senso deteriore del termine.

A me pare, insomma, che pur con un robusto cambio non solo generazionale negli uomini (del resto alcuni di quella parte sono usciti dal PD alla sua fondazione o quasi, mentre due dei maggiori riferimenti del recente passato, Bassolino e Cofferati, si sono ampiamente bruciati in gran parte con le loro mani) l’attuale “sinistra” PD ricordi da vicino i movimenti e gli umori della “sinistra” DS, quella, per intenderci, che contro l’elezione di Fassino alla segreteria del 2001 non aveva avuto problemi a costruire un improbabile “correntone” con Veltroni, la Melandri e l’ala più apertamente liberal dell’allora formazione dei Democratici di sinistra.

In poche parole, e forse in modo eccessivamente schematico, in entrambi i casi Il posizionamento ideale, con la conseguenze promozione di issues e politiche pubbliche ad esso coerenti, è funzionale assai più alle dinamiche di gestione di potere all’interno del partito, che non al conseguimento di reali obiettivi. La sinistra di Fassina, non diversamente dalla “vecchia” sinistra DS, presidia un preciso spazio all’interno del partito, con finalità che possono essere così riassunte:

  • Ottenere, attraverso l’uso di parole d’ordine chiare, un consenso non ambiguo da parte di iscritti e simpatizzanti, che sia ben quantificabile e quindi “misurabile” in sede di congresso o di riunioni locali e nazionali di partito.
  • Utilizzare questo peso nella competizione per gli incarichi di vertice in modo da avere una golden share sulla direzione del partito, come si è cercato di fare nel 2001 fallendo, e come invece si è riusciti nel caso dell’impegno per l’elezione di Bersani.
  • Attraverso le proprie parole d’ordine universalmente attribuibili al proprio gruppo da parte degli appartenenti, essere chiaramente individuabile e identificabile come insieme organizzato, così che nella distribuzione di compiti e responsabilità all’interno del partito vada a uomi di propria fiducia una certa quota di incarichi rilevanti.
  • Rafforzare la propria posizione attraverso il sostegno a progetti di coalizione interpartitica più compatibili con la propria posizione che con quella dei gruppi avversari nella competizione interna.

Nel caso specifico, la “sinistra interna” sembra interessata a coltivare uno spazio politico, piuttosto che a generare partendo dalle proprie ispirazioni ideali un vero set di proposte di intervento sociale adeguato ai (duri) tempi che corrono. Le cose che contano, nell’autorappresentazione del gruppo da parte di uno dei suoi esponenti di spicco, sono il proprio ruolo di collegamento con le “raidici storiche” e coi “padri nobili” della tradizione della sinistra italiana; la propria imprescindibilità per garantire al partito un riferimento identitario sul piano delle famiglie politiche europee (indipendentemente dalle ricette divergenti che ora circolano nella “famiglia” socialista); la propria posizione fondamentale per il dialogo con il più vicino alleato di coalizione, SEL. E l’esigenza programmatica prioritaria è innanzi tutto la gestione dei compiti di segreteria: opinioni e prese di posizione sembrano infatti destinate, più che a trovare uno sbocco operativo concreto, a rimarcare che nell’ambito dell’alleanza con Bersani e i suoi un gruppo tutt’altro che maggioritario nel Partito democratico ha ottenuto, e si guarda bene dal mollare la possibilità di presentare a più riprese le proprie proposte come quelle “ortodosse”, finanche intentando processi pubblici a chi, come Ichino, non è meno legittimato a parlare di Fassina dal proprio consenso personale.

Tutto questo aiuta a spiegare le posizioni coltivate attualmente da un esponente politico che, nella sua storia personale, ha mostrato di sposare orientamenti profondamente diversi, ma soprattutto aiuta a comprendere perché, nel complesso gioco di equilibri che appassiona molti dirigenti del Partito democratico, le proposte, le idee e gli obiettivi da realizzare siano sempre messi in secondo piano: essi non sono il fine, ma caso mai una parte del gioco, che si è acquisita essenzialmente per accidente, e che si può ricontrattare e all’occorrenza vendere di fronte al mutare dello scenario interno. Ecco, affinché il confronto tra le “anime” (per usare un’espressione che ai giornalisti piace) del PD diventi davvero produttivo non bisogna semplicemente che i leader si sveglino, bisogna che questo modo di intendere i rapporti tra i gruppi cambi. E dovrà cambiare, per una questione di sopravvivenza.

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