Leggendo un articolo de Linkiesta riguardo alla necessità di astenersi di fronte al quadro politico odierno, mi è venuto in mente un post di Francesco Costa sull’argomento, intitolato “Elogio del meno peggio“.
Vi consiglio di leggere il post perché personalmente lo trovo una piccola perla di buonsenso in mezzo al diffuso opinionismo sterile, ed è di certo più completo di quello che potrei scrivere io.
Il punto centrale di Francesco, che condivido in toto, è che molte persone pensano che votare serva a trovare la persona/il partito che meglio incarna le nostre idee e i nostri principi.
Non è così. Votare serve ad eleggere la persona/il partito che governerà il paese per 5 anni, il resto sono, come si suol dire, seghe mentali. In questo processo entra in gioco il nostro ordine di preferenze per i candidati, per il fatto che logicamente ognuno vuole mandare al governo il candidato in cima alla propria lista. Ma nessuno ha mai detto che ci deve essere qualcuno in grado di “fittare” al 100% le nostre preferenze. Quando hanno fondato il PD non mi hanno telefonato per sapere cose ne pensavo sulle varie tematiche, quindi è ovvio che il programma del partito non mi potrà mai soddisfare del tutto.
E’ tipico di una degenerazione collettivista pensare agli elettori come ad una “massa” omogenea che segue le stesse battaglie, le stesse convinzioni, con le stesse esigenze, che quindi possono essere rappresentate in modo compiuto da una classe dirigente specifica. Destra, sinistra, riformisti, moderati, conservatori, socialisti, new labour, terza via, libertari, marxisti, anarchici, sono categorie utili per studiare i fenomeni macro ma gli individui sono ben più complessi di una dozzina di definizioni generiche. Una persona può essere liberale in economia ma tradizionalista sui diritti civili, o viceversa, con in più qualche istanza personale che non entra in nessuna sigla particolare. Cos’è questa persona, dove la si incasella? Si sposterebbero milioni di voti da una legislatura all’altra, nascerebbero e morirebbero partiti, se gli individui avessero appartenenze così strutturate?
E’ proprio per questo che è assurdo il discorso del non votare perchè nessuno mi rappresenta. Non gliene importa niente a nessuno. Un governo verrebbe eletto anche se andasse a votare il 30% degli elettori (come già succede in molti paesi), e anzi i politici sarebbero solo contenti di doversi sbattere meno per convincere la gente a mettere un segno sul proprio simbolo.
Non c’è bisogno di essere fiduciosi nei partiti, nella democrazia, nei politici per andare a votare. Basta voler mandare al governo la persona che ci sembra farà meno danni degli altri. Può sembrare cinico ma è semplicemente la cosa più sensata da fare per difendere i propri interessi. Se poi si trova qualcuno che siamo sinceramente convinti di votare tanto meglio, ma basta la pura autoconservazione per convincere ad andare a scegliere quelle persone che influiranno in modo pesante sulla nostra vita per i successivi anni.
Per questo vedo già più ragionevole l’astensione per indifferenza, piuttosto che quella per protesta. Se uno mi dice che non vota perchè non gliene importa niente di chi sarà al governo può anche andarmi bene. Non votare è un diritto, se penso in coscienza che la cosa per me sia irrilevante. Credo che chi lo faccia perda poi di credibilità a lamentarsi, visto che non ha fatto nulla per eleggere il candidato migliore anche solo dell’1% rispetto agli altri. Invece non votare per protesta è completamente inutile, va bene giusto per quei bohemienne che si sentono molto incompresi e con una mente eccelsa al di sopra di quelli che “non si rendono conto”. Sono vent’anni che i giornali parlano dell’astensione, del partito dei delusi, dell’antipolitica, eppure il paese continua a essere governato da qualcuno. Semmai saranno arrivate proposte nuove (come il Movimento 5 Stelle), ma che inevitabilmente devono essere votate per poter cambiare il paese, quindi il gesto del voto è comunque necessario.
La realtà è che l’indignazione serve solo se viene catalizzata in qualcosa di costruttivo, in una pressione che chieda di cambiare l’esistente in qualcosa che si ritiene migliore. Altrimenti l’unico risultato dell’astensione è quello di sentirsi in pace con sè stessi per non essere scesi a patti con le proprie convinzioni. Anche se poi gli effetti del gesto sono, concretamente, nulli.