Carta straccia
Il modello economico su cui si basano da sempre i quotidiani di carta, si fonda sulla diffusione di pubblicità a pagamento (stampata sulle pagine dei quotidiani stessi) presso un certo numero di lettori che vengono attirati confezionando notizie che possiamo definire genericamente interessanti. A questo si aggiunge, anche se in minima parte, il prezzo pagato per l’acquisto del quotidiano (tolta la parte per la stampa, il distributore, la spedizione, l’edicolante). Incidentalmente il quotidiano è stato anche il mezzo usato dalla società civile nelle Democrazie Occidentali per il controllo dei soggetti nell’esercizio del Potere loro assegnato e impedirne gli abusi.
Questo modello economico fondato sulla pubblicità, a causa del calo del numero di lettori, oggi non funziona più. Così adesso si è reso necessario trovarne uno nuovo.
Il problema è che soltanto i modelli che reggono la prova del mercato continuano a sopravvivere. Non è sufficiente dire “occorre un nuovo modello”: rimane da vedere se un nuovo modello di business per la carta stampata possa o meno essere trovato.
Immaginare che una realtà debba continuare ad esistere soltanto perché quando siamo nati già esisteva, non è un motivo sufficiente (come le carrozze trainate da cavalli, la televisione in bianco e nero e i telefoni a gettone possono testimoniare).
Anomalia Italia
In Italia i giornali non stanno del tutto sul mercato, beneficiando di sovvenzioni statali sia dirette (fondi erogati) sia indirette (sconti sul costo dell’invio dei quotidiani in abbonamento). Tuttavia, la crisi è tale che anche queste sovvenzioni, giuste o sbagliate che le si ritengano, non sono più sufficienti.
Certo, da noi i quotidiani sono usati anche come mezzo di pressione politica e sovente come sostegno per attività che sono in altri ambiti economici. Ma ciò non toglie che non si possano perdere, soprattutto in anni difficili come questi, milioni di euro ogni anno e pensare di continuare ad andare avanti come se nulla fosse.
La situazione dei giornalisti poi è un classico della condizione feudale del nostro paese, che vede contrapposti un numero ristretto di giornalisti riconosciuto dall’Ordine, arrivati là per tempo, per merito, per parentela, pagati da bene a molto bene, a un numero enorme di aspiranti giornalisti che confezionano la larga parte delle notizie, pagati una miseria e senza diritti.
In Italia il giornalismo sconta anche un problema di credibilità. È diffusa la convinzione che i giornalisti quasi mai scrivano tutto quello che sanno. Che quasi mai attacchino i potenti da cui dipendono economicamente. Che i poteri forti economici non vengano quasi mai toccati da inchieste giornalistiche che ne mettano in luce la pochezza manageriale o le malefatte (prima che sia troppo tardi).
Per questo la morte dei giornali, che viene vissuta come un problema importante in altri paesi, da noi non suscita un reale, sentito dibattito: perché siamo tutti consapevoli che in Italia i quotidiani non sono mai stati i veri cani da guardia del potere. Così non sono stati vissuti dall’opinione pubblica. Che sente dunque di poterne fare tranquillamente a meno.
Le regole del gioco
In una situazione in cui la riproduzione e distribuzione dei beni digitalizzati è nelle disponibilità di chiunque, il bene originale su carta stampata perde la sua difesa. Le notizie e gli approfondimenti, comunque disponibili online, rendono il giornale di carta spesso superfluo.
L’eventuale possibilità di far pagare le notizie soffre poi del dilemma del free rider che affligge il mercato. Messa una barriera a pagamento alle notizie, c’è chi potrebbe approfittarne rendendo le proprie news gratuite, vanificando dunque gli sforzi di tutti gli altri.
Così quello a cui assistiamo è il crollo di un’industria e la sua trasformazione in una nuova industria, se i capitali che la sostengono troveranno un modello sufficientemente remunerativo. Oppure la sua trasformazione in un nuovo artigianato.
Non ci si deve dimenticare, infatti, che siamo in un sistema capitalistico: qualcuno detiene il capitale e lo investe in un certo mercato per produrre ricchezza. Se la ricchezza non viene prodotta, se l’investimento non è più remunerativo, il capitalista sposta il capitale in mercati più fruttuosi.
Non c’è obbligo di dare, a chi vuole fare il giornalista, uno stipendio dignitoso. Così ha funzionato fino ad adesso (poco fa?), perché è stato remunerativo per chi investiva quel denaro. Finito il vantaggio economico, l’interruttore viene abbassato e la giostra si ferma.
Squarci di futuro?
In America il confine tra blog e quotidiani è diventato estremamente sottile. Mentre quotidiani vengono chiusi e giornalisti si trovano da un giorno all’altro in mezzo ad una strada, blogger diventati star vengono assunti come columnist di quotidiani stampati sulla cara vecchia carta e giornalisti pluridecorati aprono blog sulle pagine online dei propri giornali. Tutto all’insegna della maggior comunicazione e del maggior confronto con i lettori. E di una più precaria remunerazione: la possibilità di essere conosciuti rende l’occupazione comunque appetibile anche se pagata poco o niente. In questo modo il giornalista è obbligato a scendere dalla sua cattedra per confrontarsi (ah, potere della crisi!) con il lettore.
Da noi questo accade più lentamente, anche se si vedono i primi segnali. C’è il rischio però che questa colonna in marcia, forse troppo lentamente in marcia, venga all’improvviso investita da un’onda anomala alta 40 metri.
E spazzata via.