Il marchese del GrilloLa mia mattinata con Mattia Calise

Mattia Calise ha ventun anni, da uno è consigliere comunale a Milano per il Movimento 5 Stelle. L’appuntamento è in Piazza della Scala, davanti alla sede principale del Comune. Arriva puntuale a bo...

Mattia Calise ha ventun anni, da uno è consigliere comunale a Milano per il Movimento 5 Stelle. L’appuntamento è in Piazza della Scala, davanti alla sede principale del Comune. Arriva puntuale a bordo della sua bicicletta pieghevole, “il bolide”, la chiama lui con un pizzico d’ironia. La coerenza si vede anche dalle piccole cose: far parte di un movimento ecologista significa ridurre al minimo gli spostamenti in automobile. Una stretta di mano e mi accompagna nel suo ufficio al terzo piano. “Hai un ufficio tutto per te?” gli chiedo divertito, “Ogni gruppo ne ha uno e io, essendo da solo…”. Saluta la sua segretaria, si ricorda all’improvviso di dover ritirare i pantaloni che ha fatto risvoltare. “Domani devo celebrare il mio primo matrimonio. Sarà il caso che vada a vederne prima uno per imparare come si fa”. E’ tutto umano, molto umano.

Ci accomodiamo nella stanzetta comunicante. Un tavolone quadrato la riempie quasi per intero. Alle pareti, un mobile bianco scaffalato: qualche copia del Fatto e dell’Espresso disordinata qua e là. “Da dove cominciamo?” “L’hai letta l’intervista che ho pubblicato ieri?” “No, non ancora.” “Ho fatto qualche domanda a un ragazzo che ha abbandonato il Movimento 5 Stelle”. Sfodera l’iPad, la trova e la legge d’un soffio. “Cosa ne pensi del caso Tavolazzi? C’è qualcuno più uguale degli altri che ha deciso della sua espulsione?” “L’unico vincolo che imponiamo è il rispetto del non- statuto e del programma. Se si è cercato di creare un organismo intermedio, questo è incompatibile. Poi non me la sento di entrare nel merito della vicenda, bisognerebbe chiedere agli interessati.” “Grillo però si è assunto qualche responsabilità in più degli altri.” “Certo, essendo il fondatore controlla che i nostri candidati non appartengano a nessun partito, che siano incensurati e che non abbiano fatto più di due legislature; se ci fossimo candidati senza queste regole i lupi degli altri partiti ci avrebbero sbranato” “Quindi non sta un gradino sopra gli altri…” “No, dopo aver controllato queste tre cose ogni iniziativa è completamente autogestita.”

Anche con lui decido di toccare il tema dell’integrazione. Mi avvicino riprendendo le critiche da sinistra dopo l’intervista a Sette: “Grillo ha detto che uno dei requisiti per candidarsi col Movimento Cinque Stelle è la cittadinanza italiana.” “E’ la legge che lo prevede, è stato distorto il senso di quelle parole.” Torna in mente il post di qualche mese fa sullo ius soli che tanto ha fatto parlare. “In Consiglio Comunale abbiamo sostenuto una mozione che andava in questa direzione. L’Italia non ha e non ha mai avuto delle politiche pubbliche sulla gestione dei flussi migratori: ogni provvedimento è stato ridotto a propaganda elettorale.” “Nemmeno con la svolta a sinistra di Pisapia questo è accaduto?” “Non ancora…”. Un’idea diversa da quella che mi ero fatto: l’integrazione come marchio di fabbrica delle politiche della sinistra, una Milano finalmente aperta al mondo che cambia.

“So come mi risponderai ma te lo chiedo lo stesso: ti senti più vicino al centrodestra o al centrosinistra?”. C’è una pausa, poi una risata. “Mi sento più vicino alla politica”. Gli confesso la mia opinione: il Movimento 5 Stelle è una parte importante dell’universo progressista. L’ecologia, la connettività, l’acqua pubblica. “No, il Movimento 5 Stelle è un approccio diverso per risolvere i problemi”. E poi la classica sentenza: destra e sinistra si sono rivelate simili “a partire da tutte quelle scelte che sono state fatte all’unanimità: penso allo scudo fiscale, al Testo Unico sulla Radiotelevisione, alle politiche sull’immigrazione”. “E con una nuova classe dirigente? Bersani ha aperto alle primarie del centrosinistra: dovesse vincere un quarantenne?” “Certo, la situazione potrebbe migliorare ma rimarrebbero comunque dieci, quindici anni indietro con una struttura basata sui soldi. Alla gente non interessa più un partito con questa formazione, interessa avere informazioni dalle proprie istituzioni, potersi candidare liberamente senza fare compromessi, senza dover piacere alla propria sezione”. La risposta mi colpisce, gli chiedo se ha ancora senso la democrazia della rappresentanza. “Non è la parola partito che fa paura, ma quello che sono diventati in Italia. Ma anche se avessimo dei partiti perfetti, la richiesta è quella di andare oltre; non occorre più la mediazione: con internet si ha la possibilità di partecipare in modo del tutto nuovo”. “Questo comporta anche l’eliminazione del filtro parlamentare?” “No, le istituzioni rappresentative sono sempre utili: devono vigilare per controllare che tutto funzioni bene. Servono più strumenti di democrazia diretta”.

Rotto il ghiaccio la conversazione è sempre più una chiacchierata fra coetanei, i rigidi canoni dell’intervista messi da parte. “Raccontami di te: come sei entrato a far parte del Movimento Cinque Stelle?” “Il mio impegno è nato prima di qualunque decisione di candidarmi alle elezioni, la cittadinanza attiva è stato il primo passo” “Cosa intendi per cittadinanza attiva?” “Ho sempre cercato di scoprire cosa accade al di fuori del racconto dei tg e dei giornali e lì ho capito che l’informazione a cui ero abituato veniva gestita a tavolino. L’ironia che Beppe, ma anche Marco Travaglio usano per avvicinarsi a questi argomenti mi ha aiutato non poco.” “E poi hai deciso di candidarti a fare il sindaco”. “Ho dato la mia disponibilità, assecondando lo spirito del movimento”. Ho un dubbio: che la sua candidatura possa essere stata tutta una provocazione per strappare qualche voto in più. “Sono stato scelto dal voto delle primarie, tutto completamente online: eravamo nove candidati delle estrazioni sociali più diverse e sono risultato il più votato.” “Se il Movimento 5 Stelle fosse stato al 18% già l’anno scorso, avreste potuto anche vincere. Ti saresti proposto ugualmente come candidato sindaco? Ammetterai che è una responsabilità enorme.” “Magari con queste percentuali le cose sarebbero andate diversamente, le possibilità di perdere sarebbero state maggiori, ci sarebbero stati più candidati. Ma io non mi sarei tirato indietro”. Rimango colpito dalla sua sicurezza, dalla voglia di mettersi in gioco oltre ogni forma di interesse.

“Con che percentuale hai vinto le primarie?” “Non è facile stabilirlo, abbiamo votato con il metodo Condorcet”. Frugo nei cassetti della mente per vedere se ricordo qualcosa; le lezioni di scienza politica, croce e delizia dei politologi in erba, sono finite da un anno e mezzo. Deve leggere qualche forma di smarrimento sul mio viso. “Non è che sia molto conosciuto: è un sistema elettorale che privilegia il candidato gradito da molti, rispetto al preferito da pochi” “Gradito da molti rispetto al preferito da pochi”, ripeto inebetito. “E’ un caos: l’attivista che l’ha proposto ci ha messo un po’ a farlo capire a tutti”. Già che ci siamo gli chiedo se, secondo lui, si riuscirà a cambiare la legge elettorale. “Fino a qualche mese fa avrei detto di sì, le avrebbero tentate tutte pur di non farci entrare. Oggi, con le percentuali che abbiamo, entreremmo con qualsiasi sistema elettorale: cambiarlo non è più una priorità per i partiti”. “E sugli istituti di democrazia diretta?” “Anche quelli sono fondamentali. Basterebbe una gita in Svizzera per capire quello che vogliamo. Lì il Governo è, per legge, composto dai membri di tutti i partiti: i Ministri sono come operai, lavorano assieme per il bene del paese.” “Come fa a reggere un sistema del genere? Qui in Italia sarebbe fantapolitica.” “Regge perché sono previsti i referendum deliberativi senza quorum e la possibilità per i cittadini di sfiduciare l’esecutivo. Tutte cose che portano i politici a non sgarrare. Pensa che il tasso di partecipazione ai referendum è più alto di quello delle elezioni.” “Questa passione per la Svizzera vi avvicina terribilmente alla Lega Nord”. Scoppia a ridere. “Ma anche no! Pure l’Uruguay ha una tradizione di democrazia diretta importante”. “Vi conviene parlare di modello Uruguay, di questi tempi”.
La provocazione ce l’ho sulla punta della lingua. Mi sembra un sognatore, un fantastico utopista. Ripone una fiducia smisurata nelle capacità dei cittadini. “Credi che si sia pronti a recepire un sistema di governo fondato sulla partecipazione?” “Beh, non si diventa pronti per la democrazia diretta, si diventa pronti con la democrazia diretta. Nel momento in cui si invoglia il cittadino a prender parte alle decisioni di chi amministra, la partecipazione aumenta” “Converrai che capire un bilancio non è tra le richieste più semplici” “C’è bisogno che ogni informazione passi attraverso la semplificazione. In questo modo si avvicina la politica ai cittadini e la si rende più comprensibile”.

“Sei consapevole che in mezzo al 18% di elettori del Movimento 5 Stelle è pieno di delusi di centrodestra? Una volta che Pdl e Lega fanno restyling, magari si candida Montezemolo e siamo al punto di partenza. Potreste addirittura scomparire…” “Non crede più nessuno a una politica di questo tipo: siamo in un momento in cui la richiesta di risposte è fortissima. Poi, una volta che
avremo cambiato tutti gli strumenti di partecipazione, non ci sarà più bisogno del nostro contributo e continueremo ad agire come singoli cittadini attivi”. Il quadro è chiaro. Manca solo un tassello: la vicenda di Parma. La Giunta che tarda ad essere nominata. “Si dice che la società civile che tanto impegno ha profuso in campagna elettorale, ora non voglia metterci la faccia” “Il processo per selezionare gli assessori curriculum per curriculum è lungo e richiede tempo. Sicuramente si arriverà a un’ufficializzazione entro breve” “Un politico obietterebbe che gli assessori devono essere pescati dalle liste elettorali, possibilmente tra coloro che hanno ricevuto più voti.” “Non ha alcun senso: il Consiglio Comunale è l’organo di indirizzo della Giunta. L’esecutivo è un’altra cosa: è il sindaco che dà delle deleghe agli assessori. Sono dei tecnici che si devono limitare a lavorare”. “Quindi ben venga un Governo composto da tecnici.” “No, su quello c’è un deficit di democrazia evidente.” “Per quale ragione? La nomina del Governo spetta al Presidente della Repubblica.” “Anche quella è una distorsione da cambiare: è chiaro che i cittadini si aspettano chi sarà il Presidente del Consiglio in caso di vittoria dell’una o dell’altra coalizione.” “Pensi che Emma Bonino possa essere un buon Presidente della Repubblica?” “Assolutamente no, rappresenta il vecchio. In questo momento, comunque, è l’ultimo dei problemi”.

Si è fatta l’ora di pranzo. Usciamo dall’ufficio e scegliamo una trattoria poche vie più in là. E’ l’occasione per una chiacchierata personale. Davanti al piatto di pasta fredda ne approfitto per chiedergli come vive il suo rapporto con la notorietà. “E’ bello essere riconoscibili per quello che si fa, per la propria passione”. Mi racconta dei suoi viaggi, della batteria che cerca di suonare nei momenti liberi. Un cittadino normale. L’autoreferenzialità dei palazzi, lontana anni luce. Un caffè e ci salutiamo: lo aspetta un pomeriggio in commissione bilancio.

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