Gli ultimi anni, soprattutto quelli del calcio italiano, hanno visto crescere una piaga tragica e distruttiva. Non si tratta di calcioscommesse strisciante, né di condizionamenti arbitrali o di crack industriali, si tratta della “fame”. Fino al 2006 infatti la “fame” era una orribile e deprimente condizione in cui vivevano circa 820 milioni di persone ( tra l’altro in continuo aumento), o al massimo si poteva riferirsi a “fame d’amore”, anche qui però mantenedo l’indicazione negativa di un desiderio straziante che rivela vuoti incolmabili e che spesso finisce per danneggiare il suo stesso portatore.
Da quando Lippi e la sua nazionale hanno vinto i mondiali, la semantica del termine “fame” subisce un’accellerazione. Fin dagli ultimi allenamenti a Duisburg fu chiaro che il progetto tattico dell’Italia per affronatare la finale berlinese era il digiuno. “Visto che le squadre sono simili per livello tattico e tecnico, domani vince chi avrà più fame” dichiarò il poco carnevalesco tecnico viareggino, anzi di più “dobbiamo essere arrabbiati come bestie”. Chi pensava fosse una partita di calcio dovette ricredersi: non sarebbero scesi in campo dei semplici calciatori ma cani inferociti lanciati all’inseguimento del cigno danzante Zidane, della lepre nera Henry. Il discorso funzionò e l’Italia, pur non giocando di certo il miglior calcio, si laureò campione del mondo, e non fu quello l’unico risultato conseguito. La retorica della “fame” ( sicuramente preesitente) divenne, infatti, egemone. Gli allenatori si trasformarono in cuochi alla rovescia, che si adoperano non per focillare i loro allievi, ma per generare in loro una fame continua, atavica e inestinguibile. Quest’anno infatti, non sono stati i piedi vellutati o la saggezza di Pirlo, né l’abilità o l’applicazione costante dei centrocampisti e difensori, o le parate di Buffon, no, è stata l’abilità di Conte che “Ha messo fame alla Juve” ad essere determinante per la vittoria dello scudetto. Più che l’allenamento poté il frigorifero vuoto, ed ecco che sul campo non ci sono più undici leoni ma undici Conte Ugolino ! Non bisogna però pensare che si tratti di una questione tutta bianconera. Il Napoli infatti proprio con la stessa arma ha battuto i neoscudettati in finale di Coppa Italia, mentre il Milan si è speso moltissimo durante tutto l’anno per fare in modo che tutti capissero che “Anche noi abbiamo fame”; addirittura Ranieri ci ha confessato che l’abitudine a saltare i pasti, può radicarsi talmente tanto in uno sportivo che, seppur esonerato quindi senza obblighi di digiuno, lui continua ad avere “più che fame che mai”.
Ovviamente non bisogna dimostrarsi ingenui, facendo finta di non comprendere che il richiamo alla sofferenza è parte integrante della retorica dell’impegno. Da sempre le evocazioni di battaglie e scontri sanguinosi, ha fatto eco alle partite, soprattutto di chi sapeva di non poter mettere in campo molto altro che la grinta e l’orgoglio. Ma è una tecnica veramente necessaria ? Realmente il modo fondamentale di scatenare l’intensità del gioco è porre l’enfasi spasmodica sulle esortazioni ferine o sui percorsi di sofferenza ?
Forse no, e l’esempio, come sempre, ci arriva da lontano. Nereo Rocco è stato forse l’allenatore più influente del secondo dopoguerra, insieme ad Herrera ha fatto sì che che una nuova luce, ed una nuova importanza ricoprissero il ruolo dell’allenatore. Con la sua linea Maginot ( così ribattezzata da Gianni Brera, uno dei suoi primi sostenitori ) ha creato una scuola tutta italiana di preparatori più attenti ad esaltare le qualità dei propri uomini, piuttosto che alle discussioni sulla disposizione in campo. Aveva un aspetto superficialmente burbero, e molti all’epoca sostenevano che fosse un allenatore capace solo di sfruttare la potenza e il peso dei suoi calciatori. Come con il suo fantastico Padova, dove sfiorò lo scudetto sul finire degli anni Cinquanta, dove si giocava un catenaccio durissimo interpretato da una schiera di “manzi” veri e propri, e dove, però, riuscì a trovare magnifica espressione un certo Hamrin, gracile uccellino svedese, ala destra goleador. Una “provinciale” che gioca un calcio “proletario” tutto teso all’agonsimo, chissà quanta “fame” doveva avere ? Oggi per raggiungere un risultato così si dovrebbe non mangiare per un’intera stagione! Eppure le testimonianze del capitano di quel Padova, Lello Scagnellato, sono divergenti. Sollecitato dal giornalista Gigi Garanzini, nel suo libro su Nereo Rocco, che porta il titolo dell’allenatore triestino, su quale fosse il segreto di quella squadra, Scagnellato racconta:
“Lei penserà che io risponda il temperamento, la grinta, la voglia di emergere, le qualità nostre e dell’allenatore. Tutto questo poteva anche esserci . Ma il segreto è un altro : noi passavamo le giornate a tenerci la pancia con le mani, dal gran ridere. Perché Rocco questo aveva saputo creare: il divertimento continuo, e che divertimento. Nel calcio spesso ci si annoia a stare insieme, ad aver di fronte sempre le stesse facce: noi non vedevamo l’ora di ritrovarci per scoprire cos’altro si era inventato” .
I metodi del paròn contemplavano la goliardia , gli allenamenti infatti venivano spesso conditi a gavettoni e secchiate d’acqua, ed avevano, come vuole il copione, la loro vittima e il loro eroe preferito: il massaggiatore Berto. “Ed era sempre il paròn a ispirarili. Lui ci aizzava, noi lo innaffiavamo, e a quel punto passava come per caso, buttava un occhio distratto e gli diceva: Berto, porta pazienza, che questi xe mascalzoni. Allora Berto cominciava a sfilarsi gli abiti fradici, ai suoi piedi la pozza d’acqua si allrgava e Rocco ammiccando verso di noi infieriva: mamma mia, ma come te sono ridoto”.
Sembra una seduta di commedia dell’arte, ma il punto è che quell’allegria non era solo un elemento distensivo ornamentale, una pausa. Era il motivo dominante che impregnava l’atmosfera di spogliatoio, e riusciva a mettere in evidenza così tutta la sua profonda utilità sportiva e fisiologica. “Tutta quell’allegria ci metteva addosso una vitalità particolare”. Il segreto era che quel divertimento e quell’aria distesa non andavano ad intaccare la disciplina sportiva e l’agonismo che in campo i padovani riuscivano a mettere, anzi li foraggiava. Il calcio è muscoli che si flettono, alla ricerca di un pallone sfuggente in continuo controllo precario, è energia, voglia di vivere, sudore che sgorga da fronti stanche ma soddisfatte, che hanno dato tutto ma che non sono per questo vuote, ma piene di quella libertà che solo il campo sa dare.
Anche l’integrazione dei nuovi nel gruppo ed il test sulla loro attitudine al lavoro di squadra, avveniva passando per l’immancabile e goliardica presa per i fondelli. “Arriva Humberto Rosa della Sampdoria. Grande giocatore, Rocco aveva fatto di tutto per acquistarlo, ma il carattere dell’argentino lo preoccupava. FInite le visite mediche, Rosa sale in camera a riposare e si vede arrivare un signore col camice bianco che con fare altezzoso gli dice: << Clinicamente è tutto a posto. Ma non penserà di pretendere davvero quattro milioni di ingaggio ?>>. Preso alla sprovvista, Rosa riuscì soltanto a farfugliare: ma no, se ne può parlare. << E’ quello che la società intende fare>> chiosò l’uomo dal camice bianco prendendo congedo. Era Berto Piacentini, che corse a riferire al mandante, cioè al paròn. Alora xe un bon mulo, si tranquillizzò lui. Ma se l’immagina la faccia di Rosa quando il giorno dopo vide Berto Piacentini con la tuta da massaggiatore?”
Anche al Milan il copione era lo stesso. La squadra rossonera, già tra le più prestigiose d’Italia, con Rocco divenne ancora più grande, iniziando, con la vittoria di due coppe Campioni e di un Intercontinentale, il suo percorso di regina d’Europa che l’ha condotta fino ad Ancelotti. Eppure anche là dove la pressione era maggiore, dove già allora si sentiva lo stress di dover dimostrare continuamente la propria superiorità, prima di un incontro di coppa Campioni non c’era bisogno di discorsi gladiatori, ma si recitava tranquillamente a soggetto. Racconta, infatti, Cudicini, storico portiere protagonista assoluto delle imprese di Glasgow e Manchester, che:
“All’esordio in coppa, a S.Siro contro il Lewski. Una squadra modesta ma con il centravanti della nazionale bulgara Asparoukov, un vero spauracchio per quei tempi. Vincemmo 5 a 1, nell’imminenza della partita Rocco mise in piedi un cabaret davvero senza precedenti. Arrivammo in spogliatoi, lui si piazza in mezzo e da la formazione: in porta vedémo dopo. Tersin destro Anguilla… e via spedito fino all’unidici. Si rivolge poi al massagiatore, Tresoldi, e dice di preparare la robba sia mia che di Belli, che adeso ghe penso. Dieci minuti, venti. Andava avanti e indietro, dentro e fuori lo spogliatoi, ogni tanto passava davanti a noi e diceva no go ancora deciso e intanto i compagni ci sfottevano. Mancavano 20 minuti alla partita, giuro, non uno in più e noi due siamo ancora in borghese. Rivera guarda Rocco e gli fa: stasera giochiamo senza portiere? e Rocco: ma che ora xè attimo di pausa. E poi rivolto a me : bon, son quasi sicuro de far una monada ma te zoghi ti, solo per un motivo. Perchè te son longo e mi per la testa de Asparoukov me cago dosso.”
Non voglio però concludere questo pezzo con l’amaro sapore di una semplificazione, che individua un passato del calcio come isola felice, colonizzata oggi da bruti che hanno dimenticato la bellezza del godimento del gioco. Non penso siceramente che attorno allo sport più bello del mondo sia scesa un aurea plumbea e funerea, eliminando frizzi e lazzi che in fin dei conti appartengono anche al più rude dei cameratismi militari. Forse anche il calcio è solo una vittima di una trappola comunicativa. Forse, è solo un altro prigioniero incarcerato dal messaggio egemone che è la frustrazione il motore della volontà umana.
In questi tempi recessivi ,“crescita” e “sviluppo” sembrano essere porte da aprire solo con il dazio delle “lacrime e del sangue”. Sembra essere tornata in auge una morale della mortificazione della carne e del buon umore, da scontare come punizione per i piaceri luculliani del precedente imperatore, giù giù fino ai bagordi finanziati a debito degli anni ’80. Probabilmente però, con uno sforzo creativo possiamo ancora riuscire a pensare alla “produttività” e alla disciplina non necessariamente come movimenti che si sviluppano da una dialettica della sofferenza, tentando di evitare che il “rigore” diventi la cifra della nostra vita, che in ogni momento ci condanna alla tensione aggressiva del raggiungimento del risultato a tutti i costi. Si può anche pensare che forza, virilità e vittoria nascano da un compiuto godimento del proprio proprio posto e del proprio ruolo. Come in campo, così nel mondo, le partite sono una vita breve, potersele godere sarebbe già tanto.