Lo scrittore rampanteLa tentazione della scrittura

Non negatelo, è capitato a tutti, almeno una volta. È sera, siamo soli in casa e c’è nell’aria troppa noia persino per leggere il volantino dell’Esselunga. Non abbiamo nessuna voglia di uscire, ved...

Non negatelo, è capitato a tutti, almeno una volta. È sera, siamo soli in casa e c’è nell’aria troppa noia persino per leggere il volantino dell’Esselunga. Non abbiamo nessuna voglia di uscire, vedere gente, fare cose. Perché del resto ne dovremmo avere? Al lavoro non gira affatto bene e l’ultimo/a compagno/a ha imboccato da poco la porta di uscita. Nell’ultimo censimento siamo stati catalogati alla voce “soggetti smarriti” (e scusatemi se inauguro questo blog con un quadretto così ameno). Di soppiatto ci avviciniamo al tavolino dove sta il cordless e afferriamo il notes poggiato accanto. È un attimo: la matita ce la ritroviamo in mano quasi senza accorgercene e in pochi minuti succede.

Alcuni personaggi appaiono e prendono il comando, non importa se sono del tutto inventati oppure modellati sulle persone che popolano la nostra deludente esistenza: il nostro capo psicopatico, il nostro collega raccomandato o la nostra vicina ipocondriaca. Meglio così, avremo almeno la possibilità di farla pagare a qualcuno che detestiamo. Assegniamo ruoli e creiamo conversazioni che mai avranno luogo. Trasferiamo sul protagonista la gloriosa galleria delle nostre personali sfighe, solo che lui alla fine è più bello, più simpatico, più fortunato di noi. Praticamente noi in una versione premium. Con il nostro Eroe e con tutta una serie di suoi antagonisti cominciamo a costruire trame degne di una soap e indulgiamo in descrizioni quanto più ampie possibili di ogni nostro minuscolo pensiero. Certi di superare i tanti Fabio Volo, Giorgio Faletti e Andrea De Carlo delle classifiche. Trasformiamo il caos in ordine. In breve, diamo senso. Almeno questa sarebbe la modesta intenzione.

Il giorno dopo, però, ci troviamo tra le mani un racconto sconnesso e zoppicante che faticheremo a riconoscere come opera nostra. Aggettivi inverosimili, verbi obsoleti persino per Manzoni, frasi che hanno l’eleganza di un Harmony di quarto livello, personaggi autentici come Ridge di Beautiful. Una porcheria. Eppure avevamo messo in ogni parola tutta la nostra attenzione linguistica, la nostra partecipazione emotica, le suggestioni che i mille romanzi letti ci avevano consegnato.

Rassegnamoci, quello che abbiamo buttato giù non funziona. La nostra carriera di scrittori è stroncata sul nascere. Non saremo mai dei novelli Gabriel Garcia Marquez e rimarremo ben al di sotto di un qualunque Paolo Giordano che pure un Premio Strega si è portato a casa.

Semplicemente abbiamo sbagliato approccio. Nessuno penserebbe di improvvisarsi imbianchino, chirurgo, architetto, barista, conducente di tram dall’oggi al domani solo perché vittima del male di vivere. E perché per la scrittura dovrebbe valere il contrario? Perché lo stesso demone di Cervantes (sì, Cervantes quello che ha inventato il romanzo moderno come lo conosciamo oggi), dicevo, perché il demone che si è scomodato per un mostro sacro della letteratura dovrebbe venire a trovare proprio me che alle medie non finivo mai di leggere i libri assegnati per l’estate e copiavo i riassunti dal compagno di banco? Me che entro in una libreria due volte l’anno e una di queste è a Natale quando in preda all’ansia da regalo azzeccato compro una dozzina di libri a caso che regalo a sfortunati parenti e amici? Me che sono adepto di un unico genere letterario, la lista della spesa. Me che pure sono un lettore sistematico, ma che quando parlo mi ricordo di usare solo due, trecento parole delle ottocentomila che la lingua italiana mi offrirebbe (vocabolario Treccani alla mano). Me che ho una laurea in ingegneria, ma penso sempre che ma-senza-la-letteratura-che-mondo-sarebbe? Me che devo fare la persona socialmente impegnata, moralmente irreprensibile e culturalmente evoluta. Me che non riesco a declinare i pronomi oltre la prima persona singolare. Me che in definitiva con la scrittura, non ci azzecco un accidenti.

Ok, ci sono i geni. I talentuosi. Quelli che ti seccano perché con una frase una, sanno restituirti un universo, un’impressione, una persona. Anche se è dura da ammettere, i virtuosi della parola ogni tanto nascono tra noi comuni mortali che le parole usiamo per scopi pratici e poco nobili tipo ordinare una pizza al telefono o scrivere l’ultima presentazione aziendale che ammazzerebbe pure Highlander. Non è il nostro caso. Non apparteniamo alla categoria suddetta e non ci possiamo fare niente: gli scrittori naturali esistono come, ahimè, le bionde naturali, l’acqua effervescente naturale, i naturalmente simpatici e i leader nati. E per fortuna sono una sparuta e rara minoranza che non ci tocca neppure per sbaglio.

Per noi invece, il problema sta tutto in un banale fraintendimento di fondo. Tutti ci crediamo potenziali scrittori perché quotidianamente usiamo gli stessi strumenti di cui si servono autori più o meno noti: le parole. Il sillogismo “lo scrittore è colui che usa le parole, io uso le parole, quindi sono uno scrittore”, è una tentazione a cui difficilmente sappiamo resistere. Le parole, appunto. Ci offrono a costo zero l’opportunità di mettere a fuoco il mondo o di crearcene uno nostro nel quale autoeleggerci burattinai dal potere incontrastato.

E pazienza se per creare un romanzo che funzioni oltre alle parole servano anche, nell’ordine, dei personaggi, uno stile, una creatività spiccata, una visione della vita e, soprattutto, una buona storia attraverso la quale fare passare tutta questa roba. La buona notizia è, però, che costruttori di storie si diventa. O meglio, si impara a esserlo. Ma questa è già un’altra faccenda.

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