ÈvvivaL’aborto spontaneo raccontato da un uomo: questa è la storia di Tommaso.

Ieri ha scritto Cassandra, e Cassandra è stata letta da Tommaso. Oggi, Tommaso racconta la sua storia, su un altro dei temi, tra quelli legati alla maternità, su cui vige un silenzio assordante, qu...

Ieri ha scritto Cassandra, e Cassandra è stata letta da Tommaso. Oggi, Tommaso racconta la sua storia, su un altro dei temi, tra quelli legati alla maternità, su cui vige un silenzio assordante, quello dell’aborto spontaneo. Perché non esistono solo le decisioni e le angosce delle donne, ci sono anche quelle degli uomini. E gli uomini, finalmente, si decidono a parlarne.

Sai, Cassandra, hai ragione. La verità è che non ti spiegano proprio niente, né quando nasci né quando cresci. A proposito dei figli intendo. Ti buttano solo in faccia un prototipo di felicità, dicendo che sarà bello, sarà immenso, sarà così così e così…
Non ti dicono che la felicità va sempre barattata con il dolore. Che la felicità assoluta non esiste. Che esiste solo la felicità consapevole, quella che passa prima attraverso il dolore.
Sono uomo, e quindi come tale affronto queste parole sapendo ancora meno di maternità e di depressione post partum. Credo però che esista, non nei trattati di medicina ma sicuramente negli occhi di qualche mamma, anche la depressione ante partum. È quella che è capitata a noi, a me e a mia moglie. O meglio: solo a lei, io l’ho subita, forse me l’ha contagiata, di sicuro non abbiamo saputo risolverla. Semmai si può risolvere una depressione.
È accaduto una sera, una delle tante di un mese come tanti. Io di ritorno dal lavoro e lei seduta sul divano in lacrime, non il pianto improvviso per una brutta notizia, ma un pianto di ore, glielo si leggeva in viso.
“Sono incinta”. Me l’aveva detto tre ore prima al telefono, ma forse se l’era dimenticato, forse aveva bisogno di dirmelo, forse era una richiesta di aiuto. Ma ci può essere una richiesta di aiuto in quella che è ritenuta nel pensiero comune tra le prime tre notizie più belle che possono capitare nella vita?
“Sono incinta”, me l’aveva detto al telefono tre ore prima e mi era scoppiato il cuore. Io un figlio l’avevo sempre voluto, anche con quella felicità idiota, a occhi chiusi, da Mulino Bianco in cui ci allevano.
“Sono incinta” e mi ero inventato in quelle tre ore prima la costruzione del mio mondo che davo a lei: i regalini, i bigliettini, i pupazzini. Ora a leggere tutte queste parole in “ini” non mi sembra neanche più grottesco il mio atteggiamento dell’epoca, solo inutile, inutilmente doloroso. Ma il dolore non è mai inutile anche quando passa per il ridicolo.
“Sono incinta” e guardandola seduta sul nostro divano mentre quelle lacrime scendevano senza ritegno, e all’epoca ritenevo anche senza ragione, mi sembrava all’improvviso di avere di fronte una montagna da scalare e non una donna, non mia moglie.
“Sono incinta ma io questo bambino non lo voglio”. E le lacrime finalmente si fermarono.
Io non ricordo che cosa dissi, a quelle parole. Niente di importante. Sicuramente. Perché le lacrime ripresero con più vigore quando – questo me lo ricordo – cercai di spiegare che un figlio è il futuro, è la nostra traccia per il domani, e altre minchiate di questo genere perché quando sei costretto d’improvviso ad aprire la valigia della tua costruzione di felicità puoi pure scoprire che dentro ci sono soltanto cianfrusaglie, carillon rotti, qualche filo di cotone attorcigliato venuto chissà da dove. Niente di niente, solo oggetti alla rinfusa, come quelle mie parole che non servivano proprio a nulla.
“Non lo voglio questo figlio, tu lo vuoi. Io non ho mai voluto un figlio”. Era vero.
Fu una notte infernale. Forse la peggiore di quelle vissute insieme. Quelle lacrime non finirono, come delle onde venute da un mare lontanissimo continuarono a cullare lei in quella straziante disperazione del rifiuto.
Poi la vita continua. Perché poi la vita così fa. Anche se non vuoi, ricomincia il giorno, gli impegni quotidiani, le telefonate, devi lavarti, devi uscire. E allora ti tocca. E vai, riprendi il tuo cammino. Anche con un inizio di bambino nella pancia.
Così facemmo entrambi. Io non ero sereno e lei era un po’ meno disperata. La felicità che di solito si accompagna a notizie come “sono incinta” non era proprio mai entrata in casa.
Poi cominciarono quelle cose che una donna incinta non sa di dover subire. Stare male. La nausea, la tristezza (quanta ne passa in una donna incinta ma provala a cercarla, un’immagine, una fotografia. Solo donne con un sorriso di grande serenità mentre accarezzano con devozione la morbida linea della pancia), il silenzio.
Poi venne il ginecologo. E quel cuoricino che batteva. All’impazzata. E che a me dava una grande felicità. E un sorriso a lei.
I giorni passavano lenti. Consapevoli, ecco. Quelle lacrime erano finalmente cessate ma non c’era neanche uno straordinario urlo verso la vita. Solo una più ragionata accettazione delle cose. Poi venne Natale e portò il sangue.
Una strisciolina improvvisa, come un graffio sul braccio, uno sbaffo di latte agli angoli della bocca. Ecco, ci sono parole in “ini” e in “ina” che possono non soltanto essere sdolcinate ma anche fare molto male. Quella strisciolina era l’ultimo saluto di un figlio venuto tra le lacrime, da un misterioso mare di infelicità.
Ci fu l’aborto, in clinica, tra fiocchi rosa e azzurri appesi alle porte delle stanze. Che colore era il nostro? E poteva mai essere un fiocco? Il fiocco chiude è il segnale che è il regalo è pronto. Così decisi di disegnare, ma la tenni solo per me, una stella. Nera. Ecco, il nostro bambino sarebbe stato per sempre una stella nera.
Poi venne la sala operatoria e le parole da imbecille di quel ginecologo. “Abbiamo dovuto lavorare a lungo, non è stato facile. Ma abbiamo eliminato il residuo”. Io mi sforzavo, tra stelle e fiocchi, di dare a quel figlio mai nato un suo posto e quel ginecologo in una sera delle feste di Natale lo aveva chiamato “residuo”. Per poco non diedi addosso al ginecologo e alla mia solitudine.
Perché se ricordo quel tempo, ricordo soprattutto questo: il vuoto, la solitudine. Mia e di mia moglie. I parenti sono capaci nella stragrande maggioranza dei casi solo di farti male. Stupidamente. Senza neanche accorgersene. “Ma che vuoi che sia un aborto.. ci riproverete e vedrete che andrà meglio”. Come se quell’aborto non meritasse pietà, compassione, compartecipazione. Aiuto.
Ma i parenti non hanno avuto ragione. Ed è stato meglio. Ma questa è un’altra storia.

ps Chiunque voglia raccontare la propria storia può farlo scrivendomi a [email protected]. Da parte mia la promessa di salvaguardare l’anonimato e la privacy di ciascuno.

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