Thin(k) FreedomL’agrumeto in fiamme della Beppe Montana

Alla cooperativa Beppe Montana ero andato nell'estate del 2010, per un campo di lavoro volontario con il mio gruppo scout. Avevamo contattato l'associazione Libera con il desiderio di conoscere una...

Alla cooperativa Beppe Montana ero andato nell’estate del 2010, per un campo di lavoro volontario con il mio gruppo scout. Avevamo contattato l’associazione Libera con il desiderio di conoscere una realtà diversa dalla nostra (non solo geograficamente) ed eravamo finiti nel paesino di Belpasso, nei pressi di Catania. Lunghe giornate di lavoro sotto al sole, per estirpare erbacce, tagliare i polloni e far tornare quegli ettari incolti ad una parvenza di dignità. Non eravamo che all’inizio: la cooperativa era nata da pochi mesi, nonostante il terreno fosse stato confiscato da molto più tempo. Le lungaggini burocratiche avevano fatto slittare l’assegnazione del terreno, e così un agrumeto e un uliveto un tempo rigogliosi erano caduti nell’incuria, diventando improduttivi. Si tentava di dare l’avvio a qualcosa che facesse dimenticare la famiglia Riela, gli ex proprietari legati al boss Nitto Santapaola, in favore di un’attività economica finalmente genuina e trasparente, gestita da giovani entusiasti e senza legami mafiosi.

La sveglia alle 5, per evitare le ore più calde del giorno, era un po’ traumatica ma si ringraziava dopo, quando dopo pranzo si poteva riposare più a lungo sotto ai portici, chiacchierando con i soci della cooperativa e scoprendo tante piccole cose su quella terra così bella e così difficile. Ricordo che certi lavori ci sembravano futili: facevamo tutto a mano, con falcetti, seghe e carriole, dei lavori che con attrezzature più adeguate e motorizzate avrebbero richiesto un terzo del tempo. Ma la cooperativa era talmente acerba che le risorse arrivavano con il contagocce, e si faceva con quel che c’era. La sensazione di essere parte di un progetto più grande, di una riscossa civica comune, era comunque forte.

E il fatto di essere “gente del nord” non ha cambiato questa cosa: una delle prime cose che ci hanno detto è di abbandonare gli stereotipi del mafioso con berretto e lupara, e di rendersi conto che la mafia non è meno presente a Parma o a Milano solo perchè è meno visibile. L’errore più grande sarebbe di relegare il fenomeno a qualcosa di flokloristico e confinato al meridione e alle sue peculiarità. E non c’è bisogno del gran numero di indagini antimafia nella mia città per convincermi di questa cosa.

Oggi leggo che un incendio doloso ha distrutto sei ettari dell’agrumeto. Penso alla fatica fatta in quei campi per una settimana e mi arrabbio, poi penso ai due anni spesi dai soci della cooperativa in quel progetto e mi infurio. Vedere il proprio progetto frustrato da un’azione così vile, dopo centinaia di giorni di lavoro ora inutile, deve portare a sensazioni che non saprei immaginare o definire. Rabbia, delusione, frustrazione, senso di impotenza, assenza dello Stato.

Non so cosa stiano pensando ora i soci della cooperativa. Non so se sarei capace di ricominciare, dopo qualcosa del genere. Penserei che è tutto inutile, che tanto due anni di lavoro possono essere vanificati da un buco in una rete e da un accendino. Ma probabilmente questo è proprio ciò che gli autori del gesto vogliono, frustrare e abbattere le coscienze, facendo sentire inutile ogni sforzo di cambiare il sistema.

Magari sarà proprio per questo che Diego, Antonella e Alfio si rifiuteranno di arrendersi. Per non dargli soddisfazione. Dimostrare, nonostante tutto, che non li si può spezzare. Io un po’ ci credo. O forse voglio crederci, per non rassegnarmi all’idea che il mio paese sarà sempre sottomesso a questo anti-stato che a volte sembra più forte di quello ufficiale.

Qui potete vedere un video della nostra esperienza. Davvero poco serio, ma credo traspaia la gioia del tempo che abbiamo passato lì. E forse in questo momento è molto importante.