CREATIVINDUSTRIEMacao, l’era neo-bohème e l’arte indipendente come nicchia di mercato

Si è già detto molto a proposito dell’occupazione della Torre Galfa, e successivamente di Palazzo Citterio, da parte del collettivo artistico milanese Macao. E molto se ne dirà ancora, perché è una...

Si è già detto molto a proposito dell’occupazione della Torre Galfa, e successivamente di Palazzo Citterio, da parte del collettivo artistico milanese Macao. E molto se ne dirà ancora, perché è una vicenda che non può dirsi conclusa con gli sgomberi. A Milano la discussione è ancora accesa e le domande che sono emerse, per la politica e per la città, e a cui dover dare ancora risposta sono molte. Il dibattito si è per lo più fin qui concentrato sulle questioni legate alle condizioni della legalità dell’occupazione o sulle ragioni e la forma di protesta degli occupanti. Come è giusto. Come è ovvio.

Credo però che a mente fredda e con animi rasserenati l’intero tema possa essere valutato in un’ottica differente, appropriata alla complessità degli interessi in gioco, che non sono solo quelli della proprietà degli immobili o di un gruppo di “creativi”, ma di aree urbane, di comunità e della città tutta. Si è per esempio solo sfiorato il tema dell’integrazione tra politiche cittadine e politiche culturali delle opportunità che possono emergere dall’inserimento della scena artistica indipendente in queste strategie.

Il modello a cui mi riferisco è quello di città come Parigi, Londra, Berlino, Amsterdam e Amburgo dove gli edifici abbandonati, anche privati, possono essere affidati agli artisti con la vigilanza delle amministrazioni o dove associazioni nate occupando abusivamente spazi vuoti, ora collaborano con l’ amministrazione cittadina, dando il proprio contributo di innovazione e creatività. Certo, le “buone pratiche” internazionali, anche quelle eccellenti, non sono sempre trasferibili, non sono ricette che vanno bene per tutti e per ogni città, come differenti sono le comunità per natura e obiettivi. Ma sono comunque opportunità di apprendimento intorno ad un denominatore comune, quello dell’integrare, nelle politiche e nelle strategie cittadine, pratiche alternative di innovazione in sistemi locali in grado di offrire discontinuità ad alcuni contesti in degrado.

I modelli proposti da queste città enfatizzano anche come molte attività culturali abbiano ormai luogo al di fuori della sfera dell’ufficialità. Radio di quartiere suonano la musica di band “do it yourself”, esperimenti di Social tv allestiscono propri palinsesti sui contenuti prodotti dagli utenti, documentari indipendenti hanno festival dedicati e vengono proiettati anche nelle scuole, e performance artistiche partecipative, giochi urbani e iniziative di guerriglia gardening reinventano lo spazio urbano a beneficio della comunità.

Si tratta di pratiche emergenti che, pur fuori dalle logiche commerciali e dalle costrizioni dell’accademia e della moda, indicano la necessità di superare la distinzione tra cultura e controcultura, mainstream e underground, popolare e avanguardia, entertainment e sperimentazione.

L’eclettismo è il tratto distintivo di questa produzione culturale. Il consumo di musica underground è oggi estremamente diffuso e trasversale e non più percepito come in antitesi a quello della produzione mainstream. Agli eventi organizzati dai centri sociali partecipa oggi un pubblico estremamente eterogeneo, che varia da coloro che si riconoscono nell’area della dissidenza, a studenti, a giovani professionisti, fino a artisti e designer già affermati che ricercano nell’atmosfera underground il tocco dell’autenticità. Nei negozi di design, agli oggetti proposti dai grandi nomi si affiancano quelli realizzati con materiale di riciclo da piccole botteghe artigianali. É una produzione (e un consumo) eclettico e onnivoro, che si destreggia tra i diversi stili e registri.

È il fenomeno della neo-bohème, così come definito da Lloyd Rodwin studioso del MIT e autorità mondiale nel campo della pianificazione urbana. Un contesto culturale in cui le espressioni di arte indipendente non sono più interpretabili esclusivamente come in opposizione alla cultura mainstream o come resistenza alla cultura egemonica, ma come “nicchie” di mercato.

Nicchie che alcune città hanno già cominciato a riconoscere come risorsa significativa, suggerendo come nei governi locali stia crescendo la consapevolezza al riguardo delle opportunità provenienti da politiche culturali che vadano al di là del fornire servizi locali.

Sostenere le arti e la cultura, e non di meno quella alternativa e indipendente, è anche sostenere lo sviluppo (e la ripresa) dell’economia locale.

Ma come può avvenire l’integrazione tra politiche urbane e culturali e scena artistica indipendente? Gli esempi di Parigi, Berlino e Londra, sui prossimi post.

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