WildItaly.netPaolo Borsellino sapeva!

Borsellino sapeva. Si fa sempre più insistente l'ipotesi secondo la quale, durante i 57 giorni che separarono la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio, il magistrato Paolo Borsellino - che mori...

Borsellino sapeva. Si fa sempre più insistente l’ipotesi secondo la quale, durante i 57 giorni che separarono la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, il magistrato Paolo Borsellino – che morirà nella seconda, il 19 luglio 1992 – venne a conoscenza della “trattativa” fra apparati dello Stato e Cosa Nostra. A dirlo, questa volta, è Gaspare Mutolo, il pentito di mafia che proprio ieri (01.06.12) durante il processo Mori a Palermo, è stato interrogato in videoconferenza. Il ricordo di Mutolo è assai interessante per chi, come il sottoscritto, cerca – più facile a dirsi che a farsi – di seguire tutti i risultati ottenuti dalle Procure di Palermo e Caltanissetta (la prima, indaga sulla presunta “trattativa Stato-Mafia”; la seconda invece sulla strage di Via D’Amelio). L’ex trafficante di droga per Cosa Nostra, pentito dal ’91, sostiene che

“durante un interrogatorio il dottor Borsellino mentre parlava con delle persone delle istituzioni nel corridoio gridò all’improvviso: ‘questi sono dei pazzi, questi sono dei matti‘. Era disgustato e arrabbiato, era incazzato nero con personaggi dello Stato e delle istituzioni perché volevano offrire ai mafiosi una eventuale dissociazione. Sapeva che c’erano questi contatti in corso.

Mutolo sostiene che Borsellino avesse “capito che c’era un accordo tra i mafiosi che si dovevano dissociare in cambio di una specie di amnistia”.

Ma in cosa consiste esattamente la dissociazione? E da dove arriva l’idea?
La ricostruzione la facciamo partendo dal presupposto del Pm Niccolò Marino: la dissociazione “è uno dei possibili moventi dell’uccisione di Paolo Borsellino“. Secondo la ricostruzione dei Pm, sembra infatti che – mentre la nube di fumo dell’attentato di Capaci si alzava nel cielo palermitano – lo Stato stesse valutando l’intenzione di una fase di distensione. Una sorta di ammorbidimento della presa su Cosa Nostra. Come? Varando una normativa che avrebbe garantito, a svariati detenuti appartenenti al sodalizio criminale, dei benefici carcerari in cambio di una loro dissociazione dall’organizzazione, senza però l’obbligo di vuotare il sacco. Un metodo già utilizzato durante il periodo del terrorismo, per la verità. Una cosa però è certa: il “riconoscimento di benefici per i dissociati” è il punto numero cinque del Papello di Totò Riina. Che sia un caso? Fatto sta che un input, su questo piano, arrivò direttamente da uno dei boss di Cosa Nostra: Pippo Calò. Fu lui infatti che, facendosi portavoce dei capi-mandamento in carcere, si rese disponibile a prendere le distanze dall’associazione proprio nei giorni che stiamo prendendo in esame.

Si, ma da chi partì questa intenzione?
Questa è una delle domande a cui i magistrati stanno cercando di rispondere. Se in quel periodo il generale dei Ros Mario Mori, secondo Mutolo, “scendeva spesso a Palermo e aveva contatti all’interno di Cosa Nostra per trattare”, il vice-direttore del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) Edoardo Fazioli – racconta lui stesso – discuteva all’interno del Dipartimento, guidato allora da Niccolò Amato, proprio della possibilità di creare in carcere “aree separate di detenzione” per quei mafiosi che si fossero decisi a dissociarsi. Nel contempo, precisamente il 28 giugno del ’92, l’allora Ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, venne rimosso dal suo incarico per fare posto a Nicola Mancino. Per la Procura di Palermo, la rimozione è da considerarsi il risultato di un necessario allentamento della presa contro Cosa Nostra. In altre parole : era doveroso posizionare al Viminale un uomo più malleabile e di orientamento più “morbido”.

Il giorno dell’arrivo di Mancino, Borsellino veniva informato della trattativa “ufficiale” in corso da Liliana Ferraro – appena nominata direttore degli affari penali – presso la saletta vip dell’Aeroporto di Fiumicino. Ma non gli venne data solo questa notizia. La Ferraro, infatti, gli riferì di una nota inviata alla Procura di Palermo e finita sulla scrivania del procuratore Giammanco, nella quale era riportata la notizia, pervenuta da fonti confidenziali, che era in preparazione la morte del magistrato a mezzo esplosivo. Giammanco, però, non riferì nulla a Borsellino finché non fu egli stesso a chiedere spiegazioni. Ed è forse quel 28 giugno che, per Paolo Borsellino, comincia la strada verso la morte. Si perchè fu proprio quel “muro” che pose Borsellino alla trattativa intessuta fra Mario Mori, Giuseppe De Donno e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, a dare il là a Totò Riina per accelerare i tempi dell’organizzazione della strage di Via D’Amelio.

Sono giorni, ore, istanti che segnano per sempre la vita di un magistrato. Egli, fino alla sua uccisione, farà di tutto per impedire che lo Stato si porti allo stesso livello di Cosa Nostra scendendo a patti con essa. L’input finale, verrà dato a Giovanni Brusca da Riina il quale infatti lo bloccherà durante i preparativi per l’omicidio di Calogero Mannino, “perchè c’era una vicenda più urgente da risolvere“. La vicenda, era quel “muro” che abbiamo detto prima. Secondo la Procura di Palermo, sarebbe stato proprio l’ex segretario della Dc a dare il via a Mori per i contatti con Don Vito e successivamente a proporre un ammorbidimento del carcere duro del 41 bis. Ed è anche questo, forse, il motivo del cambio di strategia da parte di Totò U Curtu.

Ma chi informò Riina?
L’unica testimonianza, ad oggi, è quella di Agnese Borsellino, vedova del giudice. La donna racconta infatti che a circa metà giugno, il marito ebbe uno sfogò con lei durante il quale le raccontò che:

“C’è un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato.[…] Il generale Subranni era punciutu (affiliato a Cosa Nostra, ndr). Era sbalordito, ma lo disse con tono assolutamente certo. Aggiunse che quando glielo avevano detto era stato tanto tanto male da aver vomitato; per lui l’Arma dei Carabinieri era intoccabile.”

E poi, infine, c’è lo sfogo in lacrime che Borsellino ebbe con i colleghi di Marsala, i pm Massimo Russo e Alessandra Camassa: “Un amico mi ha tradito” disse il giudice. Ma il nome era talmente “sconvolgente” che preferì non svelarlo.
Ad oggi, il generale Subranni, ascoltato già in due occasioni dei pm, si è avvalso della facoltà di non rispondere. E proprio mentre stiamo scrivendo questo pezzo, l’agenzia ANSA batte questa news:

“Il generale dei carabinieri Antonio Subranni e’ indagato nell’inchiesta sulla presunta trattativa fra Stato e mafia ed e’ accusato di ”violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”. Assieme a Subranni sono stati iscritti nel registro degli indagati, oltre ai boss Toto’ Riina e Bernardo Provenzano, il generale dei carabinieri Mario Mori, il senatore Marcello Dell’Utri e l’ex ministro Dc Calogero Mannino.”

E poi, il 19 luglio 1992, decisero di chiudergli la bocca per sempre. Il giorno prima, alla moglie disse “che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.” Come sempre, ci aveva visto lungo…. troppo!

GIAMPAOLO ROSSI
per Wilditaly.net

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