Parla Antonietta: il peggior nemico delle donne sono le donne stesse.
Per decenni, gli uomini hanno utilizzato la famosa teoria “dell’invidia del pene” contro le donne. È una cosa che non ho mai condiviso, perché, per mia fortuna, l’appartenenza al genere femminile non mi ha mai limitata. Mi piacciono la mia femminilità, la mia emotività, la mia fisicità: cosa me ne sarei fatta di un batacchio, pendente tra le gambe, non arrivo proprio a capirlo. Ma sono molto critica anche rispetto al luogo comune opposto dalle signore, che si appellano a un’invidia altrettanto volgare: quella per la maternità. Perché quale uomo vorrebbe mai una pancia grossa come un cocomero, o le doglie, o subire il parto? Se fosse stato un premio, Dio l’avrebbe concesso ad Adamo.
Riflettiamo per un attimo su cosa desideri una donna quando decide di dare ascolto al famoso orologio biologico: vuole una gravidanza o un figlio?
La gravidanza è una condizione transitoria, un’esperienza lunga nove mesi, personale, bella quanto si voglia, ma finalizzata alla genitorialità. Nell’ipotesi più comune di un uomo e una donna – escludendo, cioè, i casi, pure numerosi, di genitori singles, o di coppie omosessuali-, la gestazione è il cammino di due individui che, per le ragioni più disparate, decidono di creare una nuova persona, figlio di entrambi; un percorso che si comincia e si prosegue in tandem anche per il futuro.
Un bambino, non è unicamente figlio della madre, poiché lei lo ha tenuto nel grembo e lo ha allattato. Non è amato in misura maggiore o esclusiva dalla madre, perché lei lo ha partorito con dolore. La capacità di amare e di accogliere, l’abilità di donare e di condividere, l’inclinazione a concedersi e a sacrificarsi senza recriminare, sono doti individuali, innate o apprese, ma non sono la cifra esclusiva della maternità. Oggi, i nostri padri e mariti, sono cresciuti. Sono divenuti dei “mammi”perfetti; sanno prendersi cura materialmente dei figli, ed hanno imparato a manifestare senza reticenze la propria sensibilità, la disponibilità e l’amore. Sono andati ben oltre i nove mesi della gravidanza. Ma allora perché noi donne continuiamo ad esibire la gravidanza, con tutti i suoi corollari (es. allattamento)? Perché ci ostiniamo, ancora, a parlare dell’istinto materno come dell’unica bussola, per orientarsi nel mare magno della genitorialità? Per farci invidiare dalle altre donne.
Apparirò dura, forse, addirittura spietata, ma sostengo che, per una donna, non ci sia nemica peggiore di un individuo del proprio stesso sesso. Noi donne siamo spavalde, bugiarde, presuntuose. Sparliamo, pontifichiamo, giudichiamo e soprattutto, giochiamo sempre al rialzo. In ogni cosa che facciamo, traiamo impulso da un unico imperativo: “Se non puoi essere come loro, allora sii superiore”. Una donna in carriera, ad esempio, riesce a schiacciare, sminuire e mortificarne un’altra, che ha scelto, invece, di essere casalinga, sicuramente meglio di quanto faccia un uomo.
Ma torniamo a concentrarci sui temi della gravidanza e della maternità. Quando aspettiamo un bambino, non usiamo più la definizione di “stato interessante”, ma sottintendiamo, costantemente, quanto notevole sia la nostra condizione. Più siamo emancipate, istruite, indipendenti, tanto più ostentiamo. A suo tempo, abbiamo sfacciatamente deriso e canzonato le nostre amiche che, rinunciando alla carriera, hanno voluto subito sperimentare la maternità, e ora che, “primipare attempate,” tocca a noi, siamo insopportabilmente impegnate a decantare le meraviglie della gravidanza. I nostri racconti sono sempre iperbolici, anzi, quando cominciamo i confronti, si perdono le misure e neppure le iperboli reggono.
La nostra gravidanza avrà sempre un “più “ rispetto a quella di ogni altra nostra amica. Non importa se il comparativo sia di maggioranza o di minoranza, fondamentale è misurarsi: ai nove mesi fantastici delle nostre interlocutrici, opporremo i nostri superlativi, al loro trimestre di nausee mattutine risponderemo con un quadrimestre di malessere continuo. Se noi ci vanteremo di un parto lungo e laborioso, la nostra interlocutrice sarà orgogliosamente imbarazzata, dalla velocità con cui ha dato alla luce il suo bebè.
Tuttavia è in materia di allattamento che diamo il meglio di noi stesse. Consiglio, a chi ha sentito la pressione sanguigna subire un’impennata, di abbandonare adesso la lettura. Le righe seguenti risuoneranno come un affronto inaccettabile e correrete il rischio di un infarto.
Certamente è consigliabile nutrire i neonati al seno almeno per i primi 3 mesi di vita, ma ho visto amiche e conoscenti impazzire completamente, riguardo a questo tema. C’è un vero e proprio esercito di madri che tralascia, con tranquillità, molte cose fondamentali per un corretto sviluppo psico-fisico del bambino e continua, invece a rimanere concentrata, unicamente, sulla necessità di un lungo allattamento. C’è chi allatta per 6, per 12, per 24, per 36 mesi ed oltre. Ho visto tette venire fuori nei posti pubblici più impensati, per soddisfare il famelico appetito di bambini alti un metro e mezzo, che con i loro dentini nuovi riuscirebbero a spolpare un osso, ma ai quali si offre ancora il seno materno e che, poppata dopo poppata, si annodano morbosamente alla cara mammina.
Non importa chi sia l’inconscio destinatario di questa esibizione. Posso ipotizzare un campionario variegatissimo di soggetti dei quali si vogliono suscitare le invidie: il padre del bambino, per sottolineare un legame di possesso che egli non potrà mai conquistare, o le amiche, disperate perdenti di questa gara. Sono questioni personali, e ( come ho già detto) non mi interessano. So, però, ed è questo che mi appassiona e mi indigna, a chi non giova. Non giova a molte altre donne, che finiscono, loro malgrado, in questa rete narcisistica di autocelebrazione, restandone ferite e mortificate.
Penso alle donne che non potranno essere madri. Alle mamme adottive. A chi allatterà, fino a sfiorire, ben oltre le proprie capacità fisiche, temendo altrimenti di non essere all’altezza e a quante si dispereranno, in silenzio, sentendosi meno mamme, mentre riempiono un biberon. La discrezione e il pudore, non sempre sono elementi di un puritanesimo anacronistico o indici di una mancata emancipazione, a volte possono essere gesti di rispetto e di amore verso le nostre sorelle.
Mi piacerebbe che tutte riflettessimo su questo e che i gesti d’affetto si moltiplicassero.
9 Giugno 2012