Qual è la strada migliore per Rio? Non quella più breve, perché questo 2012 non simboleggia soltanto i vent’anni dal primo incontro in Brasile, ma anche, almeno, cinquant’anni di pensiero ecologista.
Per raccontare l’evoluzione dell’ecologia politica si dovrebbero fare delle premesse. Le parole chiave di queste premesse sarebbero, in sequenza (ma la cronologia è la storia degli imbecilli diceva Balzac e gli credo): industrializzazione, iperindustrializzazione, crisi, transizione, postmodernità, globalizzazione, crisi. Ogni passaggio è segnato da un notevole contrapporsi di correnti di pensiero, ma due sono quelle che più hanno segnato questa storia: la corrente antropocentrista, che vuole l’uomo al centro di ogni cosa, e quella antiantropocentrista che gli affianca la ragion d’essere degli altri esseri viventi del pianeta, il pianeta stesso e ancora i suoi ecosistemi.
Una tappa fondamentale è segnata da una domanda di una semplicità tale che nella testa sbagliata avrebbe potuto racchiudere in sé tutta una stagione di pubblicità di prodotti da forno per le famiglie: “perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d’America?”. Fu la domanda che si pose Rachel Carson, nel suo libro Silent spring (Primavera silenziosa) edito nel 1962: grazie al suo contributo il presidente John F. Kennedy istituì una commissione d’inchiesta che mise al bando molti pesticidi tra cui il noto Ddt. Poi scoppiò la crisi petrolifera e nel giro di dieci anni fiorirono le pubblicazioni ecologiste di ogni genere: dalle riflessioni filosofiche di ecologia sociale ad opera di Murray Bookchin alle tesi catastrofistiche del primo rapporto “Meadows”, edito dal Club di Roma nel 1972, che introduceva il concetto di limite allo sviluppo, un sacrilegio che la comunità internazionale avrebbe impiegato vent’anni a digerire.
Il ’72 è lo stesso anno della Conferenza di Stoccolma sull’Ambiente Umano: per la prima volta si sente il bisogno di regolare lo sfruttamento delle risorse naturali e l’inquinamento da parte dell’uomo. È di quell’anno il famoso slogan “Think globally, act locally” ed è a questo punto che il dibattito filosofico e accademico fa un salto sul piano giuridico internazionale.
Prima di allora cos’è stato? Non sempre è facile comprendere che il rapporto uomo-natura è sempre stato visto, almeno in occidente, come un continuo tentativo di sopraffazione dell’uno sull’altra, e che solo quando la tecnologia ha permesso di dominare grosso modo la natura, questa ha assunto i toni più piacevoli e positivi che ora ci viene così spontaneo attribuirle. Vigeva il cosiddetto antropocentrismo forte, quello basato sul cosiddetto cow-boy code, l’etica della frontiera, che consiste nello sfruttare nell’immediato quante più risorse possibili per trarne il maggior profitto. Da una posizione così radicale si è passati all’etica conservazionista, che evita il consumo immediato delle risorse ma le concepisce solo in funzione della sopravvivenza umana. L’etica della responsabilità teorizzata da Hans Jonas è la capacità di amministrazione delle risorse da parte dell’uomo tesa a evitare la distruzione della vita sul pianeta.
Le tesi antiantropocentriche si sono dibattute in aperto contrasto con lo sviluppismo risorsista e tra le correnti principali si possono accomodare senz’altro il preservazionismo, che al contrario del conservazionismo non vede le risorse naturali nella sola ottica funzionale di sfruttamento da parte dell’uomo, il biocentrismo, che affianca all’uomo tutti gli altri esseri viventi della Terra, e la sua falange estrema, l’ecocentrismo, che dilata la messa a fuoco inserendoci anche gli elementi e gli ecosistemi.
A questo punto uno potrebbe anche scegliere per chi tifare, tenendo conto dell’estrema rilevanza della ricaduta di ciascuna corrente dell’ecologia politica sul diritto. Le cose però non sono così semplici e le stesse conferenze, carte e dichiarazioni venute fuori dai summit internazionali sembrano avere un andamento schizofrenico anche se in fin dei conti individuabile. Infatti, a parte l’approccio antiantropocentrico della Carta mondiale della natura, approvata dall’Onu nel 1982, della Carta della Terra del 2000, fortemente voluta dall’ong Earth Charter International e della Dichiarazione dei diritti fondamentali della Madre Terra, redatta al termine della Conferenza dei popoli di Cochabamba nel 2010, tutti gli altri documenti preferiscono la strada di un antropocentrismo debole.
Secondo le visioni portate avanti, tra gli altri, da Rifkin e Sachs, l’uomo è un amministratore delegato dalla natura per preservare tutto il globo dalla distruzione, rispettando i cicli e i tempi naturali e prendendo per sé e per le generazioni future solo quello che è necessario alla vita. Con quest’ottica sono stati realizzati gli accordi internazionali più importanti, da Stoccolma a Kyoto. Ma se le Carte antiantropocentriche non sono state quasi ignorate dalla comunità, ancora più ipocrisia sembra aver colpito gli altri accordi, e sebbene il linguaggio universale dei diritti umani sembra non accogliere la possibilità di veicolare universalmente i diritti deumanizzati, che Norberto Bobbio catalogava come quelli di “terza generazione”, auspicandone la realizzazione come un impegno che avrebbe messo l’umanità sotto la luce dei suoi momenti migliori, non sembrano esserci strade più allettanti. Un ulteriore tentativo lo ha fatto Sarah Whatmore, docente di politica pubblica e ambientale a Oxford, evitando di parlare di antiantropocentrismo e di deumanizzazione dei diritti, bensì reimpiegando il termine superumanesimo, probabilmente nella reale accezione nietzschiana e togliendo il negativo a “postumanesimo”. L’affermazione del concetto dipenderà dall’impiego del pensiero attivo di Deleuze: quanto ci metteremo a partecipare e spostare le questioni politiche dall’asse nel quale sembrano piantate?
Per terminare questo racconto potrei spostare il punto di vista su qualcosa di non propriamente umano, tipo un cucciolo, o un fantastico pino che fa ombra e tante altre belle cose. Scelgo invece un punto di vista scomodo, quello di un animale selezionato per fare la cavia da laboratorio. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato nel 2007 dalla Lav, potremmo sostituire gli animali con altre cose (cellule e processori, soprattutto) per tante ricerche ma non per tutte: la posizione degli animali da laboratorio è come quella del petrolio nei confronti delle alternative, ci vogliono ricerca e volontà politica per rendere stabile il sistema differente. Seguendo il principio di Whatmore, basato sulla possibilità che anche gli esseri non umani sviluppino una coscienza, chiederei al nostro amico cosa ne pensa dello slogan di Rio+20, The world we want. Avrebbe poco tempo per rispondere, però.