Un tracollo clamoroso. La sterlina si è svalutata del 20% in due mesi. Carta straccia, si dovrebbe dedurre leggendo i giornali di questi giorni.
È accaduto nel 2008, nel Regno Unito. Una catastrofe che somiglia al destino che si prospetta per i Paesi che uscissero dall’euro. Eppure l’evento è passato in sordina. Nessuna fila davanti agli sportelli per ritirare banconote. Nessuna banca costretta al tracollo. Nessuna scena di panico in strada. Lo spread dei titoli di stato inglesi non è schizzato al 10%. Tutt’altro: l’Inghilterra ha conservato il rating «tripla A». E questo anche perché, potendo giocare sulla svalutazione per dare ossigeno all’economia, non corre gli stessi rischi dei membri dell’eurozona.
Nel 2009 l’Economist ha annunciato un sorpasso storico: il Pil del nostro Paese aveva superato quello inglese. Ma a Londra non volavano le pietre. L’arretramento britannico era dovuto esclusivamente alla svalutazione, e si guardava alle condizioni di Italia e Regno Unito, sembrava più che altro un effetto ottico. Non a caso la notizia era relegata nelle pagine interne del settimanale.
L’inflazione, cioè l’aumento dei prezzi che segue alla svalutazione, in Inghilterra nel 2009 è stata importante. Ma, ovviamente, non si è nemmeno avvicinata al 20%. E pian piano la sterlina ha recuperato il terreno perduto.
Certo, tra lo svalutare una moneta già esistente ed uscire dall’euro c’è un mondo. Un mondo di criticità ed incognite. E non sarò certo io a tirare le fila del dibattito in corso, anche se alle volte appare surreale.
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