(Parte 2)
A questo punto siamo al fulcro del discorso.
5. Ora, i tedeschi *potrebbero* anche essere disposti a fare una cosa del genere (cioè accettare una mutualizzazione dei debiti, vedi post precedente). O meglio, potrebbero esserci costretti nel caso in cui la situazione peggiorasse improvvisamente (più di così?) e ritenessero che il break-up dell’eurozona (e forse dell’UE) abbia dei costi superiori alle perdite in cui incorrerebbero dalla condivisione del debito.
Ma ovviamente non sono disposti a dare niente per niente, neanche con l’acqua alla gola: ciò che spesso i giornali evitano di mettere in risalto è che la Merkel è quella fra i capi di stato che ripete con più foga che è necessaria una maggiore integrazione europea. Perché dice questo? Perché il contraltare necessario (e probabilmente sufficiente) per una mutualizzazione del debito e di trasferimenti più o meno diretti fra paesi europei, è una cessione di sovranità che porti ad una maggiore integrazione delle politiche fiscali e, in prospettiva, ad un’unione politica.
Questo concetto ormai è chiaro a chiunque, anche agli osservatori d’oltreoceano. Sul NY Times il principio è stato espresso bene in un editoriale:
The main problem is that while leaders eagerly embraced the monetary bond, they rejected its necessary complement: a central budget that would transfer money from successful regions to underperforming ones, as the United States government sends tax dollars collected in Massachusetts to pay for unemployment benefits in Nevada.
The euro fed the illusion that Greece, Spain and Italy were as creditworthy as Germany or the Netherlands, propelling a decade-long credit boom in Europe’s less-developed periphery. And it was spectacularly ill-designed to deal with the shock when capital flows to those nations suddenly stopped. Weak countries not only had to rely on their own devices; they had to do so without a currency or a monetary policy of their own to absorb the blow.
Ma non mancano anche opinionisti e commentatori nostrani che si riempiono la bocca di europeismo e frasi coraggiose, anche se allo stesso tempo non sembrano essere del tutto consapevoli della portata di tali riforme.
Perdere sovranità sulla politica fiscale, dopo averla persa su quella monetaria, significa ridurre enormemente i margini di manovra di un paese. Vuol dire che non saremmo più noi da soli a decidere in piena libertà delle nostre voci di spesa, del livello di tassazione, della struttura del sistema pensionistico e degli ammortizzatori sociali, ma che ci sarebbe un Ministero Europeo dell’Economia a mettere paletti e dare direttive vincolanti.
Certo, non è che questa cosa possa accadere istantaneamente: all’inizio si tratterebbe di vincoli generali (di cui il primo esempio è il fiscal compact, tanto già bellamente ignorato dalla Spagna) e di un indirizzamento generale. Ma un processo di questo tipo porterebbe nel medio termine ad una situazione simile a quella di uno stato federale.
6. Il problema di questa soluzione deriva dalla necessità di una mutualità fra paesi che allo stato attuale sembra davvero fantascienza. Si pensi ad un Europa in cui il rapporto fra Germania e Grecia sia simile a quello fra Lombardia e Calabria, in cui la regione più ricca e produttiva compensa i deficit fiscali di quella più povera (messa brutale, ma a livello tributario è la pura verità). In Italia succede perché esiste un sentimento nazionale comune e un’accettazione dello stato di fatto che deriva da squilibri storici che ormai fanno parte nel nostro DNA. Ma la “questione meridionale”, l’ascesa della Lega Nord e il dibattito sul federalismo fiscale indicano che anche all’interno della stessa nazione il problema dei divari di produttività e dei trasferimenti di gettito è sentito come drammatico e prioritario. Ogni paese ha regioni più ricche e altre più povere, ma ci sono dei limiti oltre i quali questi divari diventano insostenibili, sia politicamente che economicamente. Immaginarsi che Stati sovrani diversi, che meno di un secolo fa si massacravano sui campi di battaglia, accettino improvvisamente di trasferire risorse fra di loro, è davvero arduo. Anche se in ultima analisi questo già succede attraverso i programmi d’aiuto, la formalizzazione della cosa e il suo carattere strutturale è un’altra cosa, anche a livello psicologico.
L’unico modo sensato per farlo è quindi quello della via democratica, cioè attraverso referendum che chiedano ai cittadini se sono disposti a iniziare un percorso di unificazione fiscale e politico che porti alla nascita di un vero stato federale, “Stati Uniti d’Europa” o come li si voglia chiamare. Purtroppo non potrebbe esserci un momento peggiore per un’azione del genere: la popolarità dell’Europa, delle sue istituzioni e di una eventuale unificazione ulteriore è ai minimi storici. Temo che qualunque tentativo di consultazione democratica in questo momento fallirebbe miseramente. A questo si aggiunge anche la riottosità dei politici nazionali, che ovviamente non vogliono venire spogliati del loro potere e ruolo. Immaginarsi il nostro ceto politico attaccato alla poltrona disposto ad essere “relegato” a governatorato, con le decisioni principali prese dalle istituzioni europee, è pura follia. Ed è perciò evidente come siano i governi stessi a storcere il naso di fronte a queste ipotesi (e casualmente i meno entusiasti sono sempre stati francesi, spagnoli e italiani, solo per stare fra i “big”).
Conclusione. Purtroppo la conclusione non esiste e mi spiace per chi se l’aspettava: se la conoscessi forse potrei diventare il primo Presidente degli Stati Uniti d’Europa. Siamo al loop di cui parlavo in apertura, un problema in cui tutte le variabili sono collegate e le possibili soluzioni richiedono un intervento complessivo su tutta l’istituzione europea. E ogni tentativo di aggirare il nodo centrale porta, appunto, ad un percorso circolare alla fine del quale si torna al punto di partenza. Un po’ come per le varie “pezze” messe finora alla crisi del debito e al default greco, che non hanno risolto nulla e semmai hanno peggiorato la situazione.
E’ di ieri la notizia di un piano per salvare l’euro, che si basa più o meno sui ragionamenti esposti qui. Ma nonostante le belle parole non si riesce a capire come sia possibile superare le difficoltà enormi del progetto. In un bell’articolo sul Foglio, Marco Valerio Lo Prete spiega come l’esperienza dell’unificazione americana contenga molti insegnamenti utili per l’Europa (fatte salve le ovvie differenze), soprattutto per l’esempio di Alexander Hamilton, il padre fondatore che fu tra i principali fautori dell’unificazione del debito dei vari stati. Lo Prete cita anche il recente premio Nobel Thomas Sargent:
“Quando furono creati gli Stati Uniti, alla fine del Settecento, le condizioni dell’America di allora erano simili a quelle dell’Europa di oggi”, ha osservato in un’intervista alla Stampa. Dopo la Guerra d’indipendenza americana dal Regno Unito, durata dal 1775 al 1783, in nord America le “colonie” divennero “stati” ma non ancora veramente “uniti”. Erano tredici, tutti con il potere di battere moneta, contrarre debito e decidere le loro politiche fiscali, a fronte di un governo federale debole come stabilito nella prima Costituzione, gli Articles of Confederation. E tutti e tredici indebitati a causa dello sforzo bellico. Poi però “i padri fondatori, che in larga parte erano creditori dei vari stati, scrissero la Costituzione proprio allo scopo di correggere questo vizio di fondo – ricorda il Nobel per l’Economia – Il governo centrale si fece carico dell’intero debito dei tredici stati, che in cambio persero l’autonomia economica assoluta che avevano avuto fino a quel momento. Washington ed Hamilton alzarono le tasse per saldare i debiti, e cominciarono a emettere bond federali. Per salvarsi, l’Europa dovrebbe imparare la loro lezione”.
Ma si tratterebbe, appunto, di un’eccezionale evoluzione-rivoluzione nella struttura europea. Sarebbe una risposta alla domanda che tutti, investitori, politici, economisti, politologi e giornalisti, si pongono in questi mesi: “Cosa vogliamo che diventi l’Unione Europea? Come sarà fra dieci anni?“
Purtroppo la risposta, ammesso che ci sia, nessuno ha il coraggio di pronunciarla.