Il fumatore nuoce a se stesso e agli altri, e lo Stato lo colpisce. Lo fa con delle accise che sulle sigarette arrivano al 58,5% del valore di vendita, a fronte di un incasso medio per produttori, distributori e tabaccai poco superiore al 25% del prezzo. Quello che non è chiaro è se colpisca in veste di «Stato etico», che cerca di disincentivare comportamenti sbagliati, o se, con freddo pragmatismo, imponga le tasse sul fumo per farsi restituire dai tabagisti i costi che questo vizio comporta per il sistema sanitario nazionale. O ancora, c’è l’ipotesi che i fumatori siano ottimi per essere spremuti dall’Erario e fare cassa. Difficilmente infatti, un semplice aumento di prezzo può vincere la dipendenza da nicotina. E la condanna sociale per questo vizio rende quel 26% di italiani che fumano un ottimo soggetto da tassare senza che si inneschino polemiche eccessive.
Il dilemma sugli obiettivi dello Stato potrebbe chiarirlo solo il legislatore. Nel frattempo, non si può fare a meno di notare che per l’Erario i fumatori sono un ottimo business. Sono i numeri a dirlo.
Secondo il quindicesimo Rapporto Nomisma sulla filiera del tabacco, nel 2010 grazie a sigarette, sigari e trinciati vari, e l’amministrazione pubblica ha incassato circa 13 miliardi e 700 milioni di euro, di cui 10 miliardi e 622 milioni dovuti alle accise.
È difficile invece trovare studi recenti e precisi sui costi del tabagismo. Secondo Americo Cicchetti, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica, nel 2005 la cura delle patologie legate al fumo ha rappresentato il 6,7% della spesa sanitaria, per un valore di circa sei miliardi di euro. In quello stesso anno, stando ai dati Nomisma sul tabacco, le sole accise hanno garantito allo Stato entrate per 8 miliardi e 994 milioni di euro. A queste, si aggiungano i 2 miliardi e 600 milioni di Iva. L’imposta sul valore aggiunto però grava su tutti i prodotti che i fumatori avrebbero potuto acquistare al posto delle sigarette.
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