Due volte presidente e due volte dimesso. Prima per i nazisti, poi per i comunisti. Oggi ricorre l’anniversario in cui Edvard Beneš si dimise per aver rifiutato la Costituzione comunista del 1948 in Cecoslovacchia. Morì poco dopo.
I ponti si costruiscono dove c’è il permesso. Edvard Beneš, politico cecoslovacco di lungo corso, fu, evidentemente, male informato. Dopo aver ricostruito il governo cecoslovacco in esilio a Londra, durante l’occupazione nazista del suo paese, tornò in patria nel 1945 quando ormai la linea di suddivisione dei due blocchi si stava tracciando. E lui stava proprio dall’altra parte. L’ingenuo sperava di costruire una specie di terza via che facesse da cunicolo in quella che sarebbe passata alla storia come la cortina di ferro. Le speranze, se mai ce ne furono, furono taglieggiate durante il colpo di Stato comunista del 1948. Messo di fronte alla nuova Costituzione comunista il nostro Beneš si rifiutò di firmarla e si dimise proprio il 7 giugno del 1948. Una fine politica che avrebbe suggerito, di lì a poco, anche quella esistenziale. Morì stroncato da un’emorragia cerebrale.
La figura di quest’uomo è praticamente sconosciuta in Italia, mentre nell’ex Cecoslovacchia continua a dividere e affascinare per questo carattere finemente tragico. Si oppose ai due grandi totalitarismi del Novecento praticamente da solo e in entrambi i casi abbandonato dalle potenze occidentali che giudicava riferimenti democratici (il 5 ottobre del 1938 si era dimesso da Presidente della Repubblica per la cessione dei Sudeti al Terzo Reich, come stabilito dal patto di Monacol). A volte la fiducia nelle nostre “democrazie” sfiora la follia.
Filippo Grasso