Sono passati sessantasei anni dal giorno in cui nacque la Repubblica Italiana. Era il 2 Giugno 1946, uomini e donne in fila al seggio a votare, la voglia di ricostruire l’Italia dalle macerie del Fascismo. Furono quelle le prime elezioni a suffragio universale: per la prima volta non importava il censo, il sesso, il grado d’istruzione. Si era tutti uguali, cittadini dello Stato Italiano. Re Umberto non se la passava troppo bene, incoronato da appena un mese dopo la decisione del padre di abdicare. Disperato, approvò che venisse redatta una carta costituzionale tutta nuova che prendesse il posto dello Statuto Albertino; fu sempre il 2 Giugno che venne eletta l’Assemblea Costituente. Grandi uomini ne fecero parte: De Gasperi, Togliatti, Nenni. Ma anche Scalfaro, Moro, Nilde Iotti. Uomini e donne di una levatura morale come mai più nella sofferta storia dell’Italia Repubblicana.
Una Repubblica fragile, la nostra. Tanti scandali di malaffare, tanta partigianeria inutile. Un’assenza di dialogo quasi totale nella dinamica delle parti contrapposte: dagli screzi di Don Camillo con il compagno Peppone alle invettive della Seconda Repubblica contro gli spettri di un comunismo relegato al fossile di Cuba e poco più. Una Repubblica talmente fragile da essere archiviata due volte e ripresa da capo, ogni volta il rischio che la Repubblica successiva sia peggiore di quella precedente. La televisione commerciale ha distrutto l’Italia vendendo sogni di plastica, facendo scattare quel drammatico meccanismo mimetico di esaltazione dell’onnipotenza rispetto alle proprie qualità. Tutti possono essere tutto, basta volerlo; se non si riesce ad esserlo, vuol dire che non lo si è voluto abbastanza. Si può cantare, ballare, recitare senza saperlo fare. Siamo arrivati a trasporre questo concetto alla politica: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. E giù, giù, fino al regno delle olgettine, si passa dal salotto televisivo alla Camera dei Deputati con una facilità disarmante.
Siamo il Paese delle poltrone e dei titoli, con quanta voracità si è disposti ad assicurarsi un riflettore puntato, una foto sul giornale. Come se l’importanza di ciascuno derivasse dal numero di posti che occupa, da quanti stipendi riesce a guadagnare. Non c’è distinzione, in questo, tra destra e sinistra. Il presidente della Provincia di Parma, Bernazzoli, che si candida a fare il sindaco e viene sonoramente bocciato dai suoi stessi elettori, il neo-sindaco di Civitavecchia che è anche deputato e bolla come “carogne” chi gli chiede di rassegnare le proprie dimissioni. Ma anche più in basso in un meccanismo a canne d’organo che tiene sotto scacco l’intera geografia politica. Per questo che abbiamo la classe dirigente più vecchia d’Europa.
Abbiamo svuotato le parole del loro stesso significato: in politica si è “giovani” fino a cinquant’anni. “Pubblico” è diventato sinonimo di “spreco”. “Partecipazione” di “demagogia”. “Differenza” di “paura”. Sarà un bel giorno quello in cui smetteremo di brandire le parole come clave, una piccola rivoluzione che può partire qui e ora. Ma abbiamo anche un disperato bisogno di mettere etichette e cappelli ben distinguibili: chi non sta acriticamente contro qualcosa, sta a favore di quella cosa. Chi non pensa che Beppe Grillo sia un pericoloso reazionario è condannato ad essere un Grillino. Chi non è disposto a piegarsi al gioco del “sono tutti uguali” è una vittima del sistema corrotto. Chi ragiona con la propria testa cambia idea troppo facilmente. Chi chiede di riformare il libero mercato manca poco che legga la Pravda tutte le mattine.
Un diluvio culturale quello cui siamo costretti ad assistere. Venirne fuori non sarà come bere un bicchier d’acqua. Già una volta ce l’abbiamo fatta: che sia il 2 giugno tutto l’anno.