Pare che Lenin, il padre della rivoluzione bolscevica, avesse affermato che “il modo migliore per distruggere il sistema capitalista è far crollare la valuta”. E siccome Lenin fu, a suo modo, un vincente, non dovrebbe meravigliare che data la fregola di vittoria che alimenta Berlusconi questi abbia deciso di fare del compagno Lenin un suo modello.
Da diverse settimane, infatti, il Cavaliere ha cominciato a propagandare una sua ricetta per uscire dalla crisi: l’abbandono dell’euro da parte dell’Italia, l’emissione di una nuova Lira, e la riconquista della sovranità monetaria.
In un sol colpo, il Cavaliere riuscirebbe ad affossare non una, ma due valute: l’euro, che non gli è mai stato congeniale perché gli impediva di mentire con gli elettori, e la nuova liretta, che sarebbe destinata ad una immediata svalutazione competitiva, accendendo i torchi dei poligrafici per inondare di carta l’economia italiana. Svalutazione che troppe volte nel passato ha rappresentato la facile e meschina scorciatoia per procrastinare le riforme, quelle vere, indifferibili del sistema economico italiano.
L’introduzione dell’euro, invece, avrebbe proprio dovuto stimolare le singole economie dell’eurozona a procedere, per tempo, all’introduzione di quelle riforme che, se fatte in fretta ed in condizioni di emergenza come è costretto a fare il governo Monti, vengon fuori sbilenche e rabberciate: a) l’introduzione di seri e non aggirabili vincoli di bilancio pubblico; b) la conseguente messa fuori corso di tutta quella congerie di progetti ed interventi fatti con la spesa pubblica, sussidi alle imprese, buoni per acquistare voti e fugace popolarità; c) un ridimensionamento del numero dei pubblici dipendenti e la scelta tra riduzioni dei loro stipendi ed aumenti di produttività; d) coerenti riforme dei sistemi previdenziali con l’adozione di sistemi contributivi puri; e) ampi progetti di liberalizzazione delle economie con riduzione degli oneri amministrativi e dei vincoli, limiti, contingentamenti delle nuove iniziative ed attività.
Nei fatti, l’euro avrebbe potuto operare come un buon succedaneo di quei sistemi a cambi fissi che tanto piacciono agli economisti di scuola liberale: uno tra tutti, Friedrich von Hayek, secondo il quale “il più forte argomento in favore dei regimi di cambi fissi è che essi costituiscono il praticamente insostituibile freno di cui necessitiamo per obbligare i politici, e le autorità monetarie, a mantenere la stabilità di una moneta […] consentendo ai politici di resistere alle costanti domande per credito facile, per maggiori spese in lavori pubblici e via discorrendo”. Una tale ricetta, che oggi viene tacciata con la stimmate di rigorismo, facendo leva sulla gesuitica diffidenza e sull’istintivo fastidio che gli italiani nutrono nei confronti dell’autodisciplina, non poteva piacere ad un propagandista come Berlusconi, troppo legato all’idea di vendere al prossimo, sia esso un inserzionista, un telespettatore o un elettore, il confortante sogno di un possibile eldorado da Mulino bianco.
E così il Cavaliere risfodera le doti canore della gioventù, e riprende a pizzicare la lira per un popolo di inguaribili cicale, regalando l’illusione di una economia finalmente guaribile applicando, magari, una qualche declinazione della fantomatica ripresa dell’economia argentina, rivaleggiando nella gara delle corbellerie economiche col fortunato giullare Grillo.
Che queste ricette siano fallimentari, che siano un imbroglio a carico di chi qualche soldo con la virtù del risparmio lo ha messo da parte, poco importa. Che accendano la miccia ad una potenziale bomba inflattiva, con conseguente erosione del potere d’acquisto, non gli interessa. Tanto, e qui si chiude il ragionamento economico del nostro Achille Lauro della Brianza, la riconquistata sovranità monetaria porta con sé la libertà di stampar moneta, allegramente.
Per parte nostra ci prendiamo la briga di ricordare al futuro Ministro dell’Economia, il suggerimento che l’abate Galiani aveva indirizzato al Principe, consigliandogli di prender per esempio Federico Guglielmo di Prussia, nell’ammettere nella sua guardia solo i soldati di gran statura, possibilmente i più alti del mondo:
“se un principe desideroso di aver soldati di alta statura, non volesse soggiacere alla spesa che il morto Re di Prussia fece, un ministro accorto potrebbe accontentarlo così. Proporgli di dar fuori una legge, in cui si stabilisse che il palmo non si componesse più di dodici ma di sole nove dita. Ecco che in una notte tutti i suoi soldati, i quali erano andati a letto quali di cinque quali di sei palmi alti, si risveglierebbero miracolosamente allungati chi di otto chi di nove. Che se questa altezza non contentasse ancora le vaste idee del sovrano, con un’altra legge si potrebbero di nuovo slungare e prima di sette braccia, poi di sette pertiche e finalmente di sette miglia l’uno, se si volesse, si potrebbero far diventare (Della moneta, 1751)”.
La moneta facile, torchiata con generosità e senza criterio, applica lo stesso principio all’economia.
Ma, il Cavaliere, da insuperabile piazzista, sa bene che queste scorciatoie non solo piacciono perché illudono i malati di non dover ingoiare l’amara medicina, anche se la cancrena avanza, ma sa anche che simili mezzucci fanno leva su quella massima, intimamente illiberale, che vuole che “nel lungo periodo si sia tutti morti”. Ovvero la stessa onestà intellettuale ed lo stesso rispetto delle umane sorti coltivato da Luigi XV: après moi le déluge.
Che Berlusconi sia tutto tranne che un liberale lo andiamo dicendo e scrivendo senza posa da diciotto anni. Che sia un giacobino in doppio petto ci pareva incontestabile, vista la sua concezione della maggioranza (ovviamente quando a lui favorevole) e della volontà generale che tutto era legittimata a fare.
Che avesse cominciato a sposare i principi economici e politici del leninismo ci rassegniamo ad apprenderlo con divertita ironia.