Premesso che la conoscenza delle lingue straniere mi ha aiutato e ha rappresentato per me anche una fonte di grande gioia, non l’ho messa tra i primi posti nella lista delle cose che intendo trasmettere ai nostri figli. Diciamo che al momento mi interessa che siano sereni, più che poliglotti, per cui partecipo con pacificato distacco a quelle conversazioni tra mamme in cui si cantano le lodi dei cartoni animati in inglese, delle tate tedesche e dei pomeriggi al corso di mandarino per bambini.
Nonostante ciò, la questione delle lingue è entrata sin da subito nella nostra casa. La nostra conoscenza del russo è stata utile per governare la transizione, ma naturalmente non sufficiente per garantirne un uso prolungato. Ci eravamo anche chiesti se non fosse il caso di prendere in casa una colf russofona per aiutarli nell’ambientamento, ma gli assistenti sociali ci avevano – giustamente – sconsigliato. Si sarebbe rischiata la confusione emotiva sul punto di riferimento affettivo primario (“Qual è la lingua madre? Chi è che mi accudisce? In che lingua ci si prende cura di me?”) e così ci siamo orientati su una simpatica ragazza filippina, tra le cui qualità non spiccava la familiarità con l’italiano, e il cui inglese non aveva un’inflessione propriamente britannica. Ma i bambini, si sa, sono delle spugne, ed è stato così che dopo pochi mesi ho cominciato a sentire i primi “iess”, “finisch”, “uoter” e altre inascoltabili storpiature. “Ci sarà tempo per migliorare la pronuncia”, mi sono detta, ma nel frattempo registravo quanto si divertissero a parlare un’altra lingua, e come tra i loro giochi fosse addirittura spuntato quello di “parliamo inglese”, in cui sproloquiavano parole senza senso intervallate dal coretto “uan, ciu, fri”.
“Cosa vorresti fare da grande?”, ho chiesto una volta a Sofia. “La maestra – mi ha risposto – anzi, la teacher” (stavolta la pronuncia era buona, brava la sua insegnante di un’ora a settimana, ho pensato). Ogni tanto chiede al padre: “Come si dice questa parola in inglese?”, e l’altra volta si è presentata dicendo che i suoi amichetti faranno un centro estivo in inglese dopo la scuola. “Ci posso andare anche io, ti prego!”, mi ha chiesto lasciandomi senza parole.
Non so, credo che una parte di loro sia consapevole di provenire da un’altra lingua (il russo ahimè è stato completamente dimenticato) ed è come se apprenderne altre desse sollievo, restituisse la sensazione che la diversità è un fatto condiviso, non una prerogativa loro. L’altra mattina, passando in corridoio, ho ascoltato la seguente conversazione tra i piccoletti che facevano colazione: “Anna lo sai che dopo la scuola io andrò a un’altra scuola dove tutti parlano inglese mentre tu e Vladi no perché siete ancora piccoli e dovete andare a quella scuola di piccoli dove si gioca e basta?” Imperturbabile la sorellina le ha risposto: “Chemimporta? Io l’inglese già lo so, e pure Vladi, uan ciu fri”.
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