A mente freddaUna scuola modello X Factor

Da alcuni giorni fa discutere il cosiddetto "pacchetto merito", l'insieme di norme di riforma per scuola e università di cui per ora sono giunte ai giornali alcune anticipazioni, peraltro autorevol...

Da alcuni giorni fa discutere il cosiddetto “pacchetto merito”, l’insieme di norme di riforma per scuola e università di cui per ora sono giunte ai giornali alcune anticipazioni, peraltro autorevolmente confermate da alcuni esponenti dei partiti. Ho aspettato qualche giorno a parlare, per avere dati più sicuri sui provvedimenti programmati, ma anche perché di solito queste anticipazioni informali servono soprattutto per far reagire i propri interlocutori istituzionali e iniziare trattative per modificare il testo legislativo. Ora le cose si sono fatte un po’ più chiare, nel senso che proteste di praticamente tutti i settori coinvolti, dai partiti ai sindacati agli addetti ai lavori e finanche agli organismi rappresentativi del mondo scolastico e universitario, probabilmente bloccheranno il tutto e non se ne parlerà più. Però alcune delle proposte che erano uscite dal ministero (che una volta stava con sicurezza a Viale Trastevere, ma adesso ha una sede anche all’EUR, quindi non so bene come riferirmici con una determinazione topografica) sono secondo me indicative di un atteggiamento pericoloso che da anni anima gli interventi in tema di formazione, e che l’opinione pubblica non riesce ad arginare probabilmente perché la loro condivisione è più diffusa di quanto si creda.

Infatti, almeno per questa volta, non parlerò dell’annoso problema del reclutamento all’università, che pure è tema di mia stretta competenza su queste pagine. Ho già avuto modo di esprimermi sulla questione, e per quanto riguarda le proposte avanzate da Profumo posso rinviare all’ottimo intervento di Antonio Banfi comparso anche sull’Unità: fortunatamente, per una volta un collaboratore dei giornali di quell’area non si è perso in polemiche sui massimi sistemi, dalla privatizzazione della formazione alla deriva classista alle minacce al diritto allo studio, come se fossero quelli i problemi veri dell’Italia, e ha individuato bene perché la bozza Profumo individua alcune delle falle più preoccupanti della legge Gelmini attualmente in vigore, ma nella sostanza non le risolve se non riportando indietro il sistema a un modello di reclutamento precedente che ha già dimostrato di essere inadeguato.

Questa volta voglio dire la mia sulla questione dello “studente dell’anno” (qui un po’ di dettagli secondo il Corriere), interpretata alternativamente come una ventata di “meritocrazia” o come una ulteriore ghettizzazione classista all’interno di classi e scuole, dal momento che offre sussidi di studio a chi, evidentemente, erà già nelle condizioni migliori per riuscire ai massimi livelli.

Sul piano strettamente teorico, ormai è risaputo, a me la questione del “merito” convince poco, se non altro perché il concetto ha una caratterizzazione prettamente morale che nulla ha a che vedere con capacità e metodi di apprendimento. Inoltre, ogni valutazione delle competenze e delle abilità non può avere giustificazione teorica autonoma, ma deve essere correlata a un obiettivo specifico, quindi già l’idea di individuare senza tema di smentita uno studente, e uno solo, che “meriti” qualcosa è concettualmente molto discutibile. Ma voglio portare il tema su un piano più concreto, avendone la possibilità.

Io di solito cerco di non usare una qualità inutile come la modestia, e meno che mai lo farò ora, perché ritengo di potermi considerare un esperto assoluto sull’argomento: nel 1998, anno della mia maturità, attraverso i coefficienti di merito e reddito avrei con tutta probabilità vinto il premio di studente dell’anno per il mio liceo; durante i miei studi alla Normale sono diventato amico fraterno di una quantità di altre persone in questa stessa situazione; successivamente, come tutor ai corsi di orientamento estivi organizzati dalla Scuola, ho potuto conoscere numerosi potenziali “studenti dell’anno” della generazione successiva alla mia. Posso quindi dire di sapere bene chi potrebbero essere questi studenti, e di cosa potrebbero sentire veramente il bisogno.

Per quanto mi riguarda, nel 1998 con quel titolo e coi suoi ridicoli benefit mi ci sarei pulito le scarpe (spero si apprezzi l’eufemismo). Le tasse universitarie mi sono sempre state rimborsate fino all’ultimo centesimo, e così sarebbe avvenuto, per le mie condizioni di reddito (che erano tutt’altro che disperate, ma più che sufficienti, secondo i parametri in uso e col combinato disposto della media del 30 abbondante, ad accedere ai tagli di tassazione più generosi), anche se non avessi vinto il concorso pisano; a musei e mostre non sono mai andato con grande assiduità, fino a 18 anni spesso non ho dovuto pagare il biglietto, e comunque non era certo l’elemosina di un’entrata gratis quello che cercavo per avere soddisfazione. E nemmeno il semplice riconoscimento di essere il “primo della classe”, o “della scuola”. Perché lo sapevo già io come lo sapevano gli altri, e non era certo per quello che studiavo con interesse quasi tutte le materie del mio programma di studi. Io studiavo perché avevo voglia di farlo, altrimenti non avrei avuto nessuna difficoltà a smettere. I miei genitori non avevano titoli di studio, e non mi hanno mai spinto ad acquisirne a tutti i costi: se avessi deciso di andare in cantiere con mio padre a 16 anni non ci sarebbero state questioni in famiglia, e anzi probabilmente adesso avrei un lavoro decisamente più remunerativo, anche se meno soddisfacente per me.

A 18 anni, però, sentivo bisogno di altro. Ero bravo, probabilmente ero “eccellente”, si direbbe oggi, ma proprio perché non provenivo da una famiglia con precedenti esperienze di studio superiore avrei avuto bisogno di qualcuno che mi dicesse che era meglio, nell’estate prima di terza liceo, andare due settimane in Scozia a studiare un po’ di inglese, invece di stare al mare con gli amici; avrei avuto bisogno che la mia professoressa di Storia e Filosofia fosse al livello di quello di Latino, e non completamente esaurita e incapace di istruire persino un criceto, e che di fronte agli esposti che la mia classe e le precedenti avevano fatto chi di dovere rispondesse cambiandola, non mandando un ispettore che nel rapporto tira fuori la solita storia della libertà d’insegnamento, usuale rifugio degli incompetenti; avrei avuto bisogno di una scuola che non offrisse solo i corsi di recupero a chi era indietro, ma anche la possibilità a me e a chi riusciva nello studio al di là del necessario di avere nuove opportunità di imparare qualcosa di utile in prospettiva universitaria; avrei avuto bisogno di un sistema di tutorato attivo per capire che cosa avrei potuto veramente fare dopo il diploma considerando attitudini, passioni e possibilità lavorative, visto che, nella sostanza, sarei riuscito a laurearmi decentemente in tutte le discipline; avrei avuto bisogno della relativa garanzia che questa “eccellenza” che avevo provato nel microcosmo della mia scuola non fosse destinata a sciogliersi come neve al sole in occasione del confronto con i ragazzi di altre realtà, in quella selezione che avrei dovuto affrontare pochi mesi dopo a Pisa; avrei avuto bisogno di tutto questo in forme più strutturate e più efficaci di quegli incontri con le sedi universitarie o di quegli “open days” che spesso si organizzano per essere a posto con la coscienza, ma che lasciano il tempo che trovano.

Almeno in parte, io ho avuto la fortuna di trovare sulla mia strada chi mi ha aiutato, soprattutto alcuni docenti: il resto lo ha fatto la vittoria al concorso normalistico che, come mi ha detto il prof. di Latino quando l’ha saputo, “ti ha tolto ogni imbarazzo nella scelta, ché la Normale non si rifiuta”. E così posso dire di aver fatto scelte di cui, nel complesso, posso ritenermi soddisfatto (anche se, ogni tanto, mi assale la curiosità di sapere come sarebbe finita se invece di studiare Storia contemporanea mi fossi dedicato alla Storia romana…). Ma io ho studiato in quella che (almeno allora) era una delle migliori scuole del Piemonte; per molti ragazzi, specie al Sud ma ormai non solo, queste possibilità di crescita culturale sono sconosciute, e il personale docente non ha né i mezzi, né le motivazioni, né in molti casi la preparazione per metterle in piedi.

Perché, e qui chiudo questa lunga digressione, il problema non è individuare e premiare lo studente migliore. Il problema è offrire a tutti, soprattutto a chi già riesce bene nei percorsi di studio ordinari, la possibilità di crescere e di sviluppare le proprie attitudini. In questo la scuola italiana è del tutto carente, e non solo per la scarsità di risorse. In generale, l’idea che gli studenti e anche molti docenti hanno della scuola è quella della cancelleria di un ufficio pubblico: io, studente, arrivo al compito e all’interrogazione, e dimostro quanto so, sulla base di un programma concordato che il professore ha precedentemente esposto. Come e perché io sappia quello che so e/o non sappia quello che non so è irrilevante, l’unica cosa che conta è che la scuola approvi il mio studio apponendo sulla mia preparazione un timbro, quello del voto. Quello che manca nella scuola non è tanto un sistema di individuazione e di sanzione di quanto qualcuno ha studiato (o meglio, laddove manca pure quello il caso è proprio disperato), ma la garanzia di un sistema di relazioni e di rapporti tra docenti e discenti che chiarisca ai ragazzi perché e come devono sapere queste cose, che cosa effettivamente possano farci, e che non ultimo si adegui per quanto possibile alle doti e alle peculiarità dei ragazzi offrendo a tutti l’accesso a un novero sempre più ampio e complesso di conoscenze, a prescindere dal punto di partenza

In questo contesto, la proposta di uno “studente dell’anno” si ammanta di novità per coprire le mancanze di un sistema, ma non rappresenta in alcun modo una innovazione: essa, infatti, non fa che mantenere le nostre scuole quello che sono ora, un centro di sanzione di una preparazione culturale che, quando è buona, è stata ottenuta dagli studenti generalmente altrove, in famiglia o con lo studio autonomo. Perché la scuola pubblica sia una istituzione, come da propria missione, in grado di far “raggiungere” a tutti “i capaci e meritevoli […] i gradi più alti” della conoscenza, e non semplicemente di certificare che qualcuno l’ha raggiunta per conto proprio, ci vuole ben altro.

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