Milano. E’ un giorno come tanti sotto la metropolitana.
Un giorno come tanti e un viaggio come tanti: il vagone, visto l’orario di punta, vede assiepati al suo interno un corposo numero di passeggeri. Io sono in piedi, attaccato alla porta dalla quale non si scende. Alla fermata Centrale FS, come al solito, esce un bel po’ di gente per farne entrare altrettanta; tra di loro c’è anche un ragazzo sui 40 anni (si ho scritto bene, un ragazzo sui 40 anni): capelli lunghi neri legati, jeans e giubbotto rigorosamente dello stesso colore sopra una semplice maglietta nera. Trascina dentro al vagone un cassa con un lettore cd poggiato sopra. In mano tiene un microfono.
Tutti intorno a me (compreso il sottoscritto) capiscono cosa sta per accadere: accenderà la cassa e partirà allora un’orribile base musicale accompagnata da una voce sicuramente sgraziata (e sicuramente tutto sarà troppo alto per il nostro mal di testa).
Io che sono un cultore della vita prima del capitalismo, rimpiango i tempi in cui un essere umano poteva vivere suonando il violino per strada…era fantastico prima il mondo: suonavi il violino come mestiere, ti sposavi, facevi dei figli, poi un giorno per puro caso partivi per il sud America a fare il cacciatore di animali e diventavi ricchissimo. “Ma caro ragazzo di 40 anni non è più quel mondo, devi smetterla!”. Lo ammetto sono un po’ stressato, ma dentro di me sono consapevole che questo giovane uomo non sarà l’ultimo incontro paranormale dell’odierno trasporto pubblico milanese: tra un po’ arriverà il rom che cammina zoppo e si butta per terra, poi gli indiani che speculano sulla pioggia e ti vendono gli ombrelli a 20 euro, poi i venditori di borse alla fermata Romolo, poi i gioiosi aderenti al mondo di Hare Krishna…
“Poi tu ragazzo di 40 anni non suoni neanche il violino” vorrei dirgli “e quella cassa emetterà musica troppo alta e qui siamo tutti stanchi, poi il violino sarebbe stato almeno uno strumento romantico di quando non c’era il capitalismo, invece qui c’è il capitalismo, noi siamo esauriti e tu indossi un giubbotto di jeans orribile…”.
Vorrei dirgli tutto questo ma non faccio in tempo perché lui spinge il tasto play. Parte la musica e al di là delle più rosee aspettative è per davvero un’orribile base da karaoke tipica delle sagre di paese. Mi sembra di riconoscere la traccia, mi è nota, ma mi concentro sul giovane cantautore improvvisato: non sembra uno sbandato e nonostante il vestiario tipicamente anni ’80 sembra non avere particolari problemi psicologici. E’ molto concentrato e prima di cominciare l’esibizione non ci ha neanche fatto venire sensi di colpa parlandoci della fantomatica malattia che lo affligge e che non gli permette di lavorare. Strano.
Continua la base e lui finalmente comincia a cantare “Siamo ragazzi di oggi, pensiamo sempre all’America”…
“No, no, Eros Ramazzotti è troppo!” penso e vorrei fermare l’esibizione subito, prima che continui per altri interminabili minuti. Cerco l’appoggio di qualche passeggero, ma anche i più infastiditi non sembrano pronti a prendere l’iniziativa.
Non vorrei apparire esagerato (in fin dei conti è solo una canzone) ma qualcuno devo dire a questo ragazzo che è completamente fuori dalla storia! Allora io mi domando e dico: “hai 40 anni e ti inserisci nella categoria dei ragazzi di oggi? Alla tua età dovresti trovarti un lavoro, far girare l’economia che è in crisi, dovresti fare dei figli per dare speranza al futuro, dovresti darmi l’esempio che ho 26 anni e mi serve qualcuno che mi incoraggi dicendomi che ce la posso fare…no, tu non sei un ragazzo di oggi, io sono un ragazzo di oggi, maledizione!”.
Probabilmente però questo ragazzo non deve leggere come me le interviste a Paul Krugman e soprattutto non deve aver ascoltato le parole dell’ex ministro inglese degli Esteri William Hague che ha detto ai giovani manager britannici (quelli sui 40 anni per intenderci) “Basta lamentele, lavorate sodo, lavorate di più, l’unica ricetta per la crescita è lavorare duro”.
“Le hai sentite queste parole? Non ti hanno fatto pensare qualcosa?” vorrei dirgli, vorrei urlare, “Nessuno le ha sentite queste parole? Sono io l’unico comunista libertario che legge Il Foglio e si va venire le turbe?”. Non urlo, non ho la forza. Ormai sono ossessionato dalle parole di Hague sul bisogna fare “di più con meno risorse, ché questo è il ventunesimo secolo”, che è meglio “saltare sull’aereo, fare impresa all’estero, studiare all’estero”, che non si può vivere “sul debito in eterna espansione piuttosto che dover guadagnare quello che spendiamo”.
E poi mi ri-domando e mi ri-dico: “cosa vuoi intendere per America? Gli USA o il sud America? Vuoi specificare meglio oppure no? E poi basta con il mito del viaggio, che è il 2012 e al cinema fanno ancora l’adattamento cinematografico di On the road di Kerouac. Ma ci rendiamo conto? Dovresti viaggiare come dice Hague per crearti un futuro, basta appoggiarsi sul family welfare…”
Nessuno sembra pensare quello che penso io, nessuno sembra indignarsi del testo di questa canzone…“Finché qualcosa cambierà, finché qualcuno ci darà, una terra promessa” …
… una terra promessa? “Ancora credi alla terra promessa? E chi ce la regala? La Merkel? La BCE? Mario Draghi? Mario Monti? Ma ti vuoi svegliare, lo vedi che stiamo facendo la fine della Grecia? E poi sei del nord Italia, dove è finito quel fantastico nord Italia che produceva ricchezza?”.
Lui però continua imperterrito come se nulla fosse, come se il mondo si fosse fermato al 1984, anno in cui Eros Ramazzotti portò questa canzone al festival di Sanremo. Devo confessare però che questa mia crisi esistenziale nell’ascolto di Terra Promessa è basata soprattutto su due pregiudizi radicati profondamente nella mia personalità. Il primo riguarda il veo autore di questa canzone: Eros Walter Luciano Ramazzotti è romano come il sottoscritto, nato e cresciuto a pochi chilometri da dove sono cresciuto io ( la conoscete tutti “nato ai bordi di periferia”), dopo il successo si è trasferito a Milano e leggenda vuole che abbia affermato in diverse occasioni che ora la sua città del cuore non è Roma, bensì Milano. Ecco questo è un fatto che a Ramazzotti non posso perdonare: anche io vivo a Milano, la trovo una città fantastica, ma non mi passerebbe mai per la testa di rinnegare la città immortale che mi ha dato i lumi. Personalmente non so se queste dichiarazioni di Ramazzotti siano vere o se siano una fandonia metropolitana, ma solo il dubbio me lo ha reso insopportabile da anni.
Il secondo pregiudizio riguarda quel decennio passato alla storia come gli anni ’80, che considero a ragion veduta uno dei fattori dell’odierna corruzione dello spirito umano.
Sono accadute moltissime cose terribili in quegli anni: è caduto il muro di Berlino, prendeva piede la televisione berlusconiana, Craxy era presidente del Consiglio, avveniva il disastro nucleare di Chernobyl, cominciava il terribile disimpegno politico, faceva presa l’americanismo, nasceva la moda dei paninari e Jerry Cala’ al cinema diventata una dei nostri attori di punta. Insomma potrei continuare per ore ad esporvi la tesi sulla degenerazione della vita pubblica italiana cominciata in quegli anni, ma vi basterebbe la vista di questo quarantenne (“perché sei un uomo cribbio, a 40 anni sei un uomo!”) per comprendere i danni causati dagli anni ’80.
“Non come noi che siamo cresciuti nei fantastici ‘90” penso…
Lui continua a cantare con una passione indomita, fregandosene dell’Europa che crolla sopra le nostre teste. E nel suo essere inconsapevole ha anche una bellissima voce: “siamo ragazzi di oggi zingari di professione con i giorni davanti e in mente un’illusione, noi siamo fatti così guardiamo sempre al futuro e così immaginiamo un mondo meno duro” …
Continua a cantare felice questo testo così stupido e giovanile e mi rendo conto che nessuno dei passeggeri del vagone è più infastidito, tutti sono incuriositi nell’osservarlo: si comporta proprio come si stesse esibendo in un concerto! Manca l’ultima strofa, si aprono le porte per l’ennesima fermata del nostro viaggio e in moltissimi scendendo gli mettono delle monete nel bicchiere di plastica che ha appoggiato sulla cassa. Lui non si accorge neanche di questo, pensa solo a cantare, senza meravigliarsi di aver guadagnato per 3 minuti di esecuzione musicale, quello che io guadagno in un’ora di lavoro.
“..noi non ci fermeremo non ci stancheremo ed insieme noi troveremo una terra promessa un mondo diverso”. Termina il testo ma la musica batte ancora nel sottofondo, il nostro Eros con il microfono in mano e un larghissimo sorriso sul volto spiaccica le sue prime parole proprie “Grazie a tutti! Dai, forza, lasciateci ancora sperare nella nostra Terra Promessa!”.
Qualcuno gli lascia altri soldi, lui ringrazia, chiude tutto e scende dal vagone alla prima fermata disponibile.
Io lo guardo e sono stupito. “Forse gli anni ’80 erano anni bellissimi” mi viene da pensare, “forse non c’era lo spread, non c’erano gli esodati, i giovani non si terrorizzavano tutto il giorno guardando la crescita del tasso di disoccupazione giovanile, non leggevano Krugman e Il Sole 24 ore per capire cosa stava succedendo, non discutevano del semi-presidenzialismo in salsa berlusconiana, non si scandalizzano per il calcio-scommesse, Grillo non si era ancora buttato in politica e Fabio Volo lavorava ancora come panettiere ….”. E tante altre cose.
O forse gli anni ’80 erano schifosi per un giovane di allora come sono schifosi tutti i decenni per tutti i giovani di tutte le generazioni, e forse, per uscire fuori da quella realtà, dovevano partire dalla periferia romana, andare a Sanremo con un giubbotto di jeans per cantare una canzone dove chiedevano a gran voce per tutti loro (sicuramente in modo innocuo) solamente “una terra promessa e un mondo diverso”.
Dio, forse dovremmo farlo anche noi.