Nella THE 100 under 50, elaborazione della popolare classifica delle migliori università mondiali della Times Higher Education, l’Italia ha portato a casa risultati ridicoli. Come al solito. Ma il mondo accademico italiano è eccessivamente penalizzato da queste pubblicazioni. Il THE, con i suoi parametri di valutazione non dice quasi nulla su quale ateneo sia più efficiente, e dice pochissimo sulla formazione degli studenti. Il parametro più importante, a ben guardare, è la ricchezza delle università.I parametri utilizzati dal Times Higher Education per il World University Rankings
Il 60% del punteggio del World University Rankings viene assegnato sulla base dei risultati ottenuti nella ricerca scientifica. Che quelli italiani siano scarsi può essere intuitivo. Tutti abbiamo presente storie di raccomandazioni e familismo amorale negli atenei. Ma il nostro è pur sempre l’ottavo Paese al mondo per pubblicazioni accademiche, come emerge dallo SCImago Journal & Country Rank. Se si calcola il rapporto tra pubblicazioni citabili e numero di ricercatori, il sistema universitario italiano ne esce meglio di quello tedesco, giusto per fare un esempio. Ma questo parametro nel THE conta solo per il 6%. Il 48% dei galloni si guadagnano invece attraverso le citazioni dei paper pubblicati dal personale dell’istituto da parte di altri ricercatori, nonché con la reputazione. Giustissimo. Però se queste sono le regole i soldi contano, e molto. È difficile competere con il Regno Unito, la Svizzera, la Svezia, la Germania o la Francia, se questi già nel 2007 avevano una spesa per studente in ricerca e sviluppo decisamente superiore a quella italiana. Tra l’altro, un altro 6% della valutazione THE è legato, brutalmente, alla quantità di finanziamenti incassati dai dipartimenti di ricerca.
Gli Stati Uniti, i grandi trionfatori del Times Higher Education Ranking, hanno una spesa per studente in ricerca e sviluppo inferiore a quella del nostro Paese. Un fatto sorprendente, ma da ridimensionare: la popolazione universitaria americana infatti, in proporzione, molto più numerosa.
E quanto all’educazione, alla formazione di quel 99% di studenti che non prenderà la strada della carriera accademica? Il segreto di pulcinella, che non traspare spesso dalle pagine dei giornali e dal dibattito politico, è che ad oggi non esistono metodi efficaci per misurare la capacità dei professori di sfornare studenti competenti. Non è una lotta di retroguardia contro la meritocrazia. È un dato di fatto. Sono gli stessi parametri usati dal THE a dimostrarlo.
Il 15% della valutazione degli atenei – la metà del giudizio sulla didattica – dipende dall’Academic Reputation Survey. In pratica, un grande sondaggio di opinione tra docenti realizzato dalla Thompson/Reuters. Il resto dei parametri c’entrano molto con i soldi e poco con lo studio. E se sugli investimenti in ricerca voliamo bassi, la spesa complessiva per studente in Italia sfiora il ridicolo.
Ocse Education at Glance 2011
A determinare il punteggio finale concorre (per il 2,25%) il rapporto tra professori e budget dell’ateneo, che dovrebbe dare un’idea del denaro a disposizione per infrastrutture e servizi amministrativi. Poi, ci sono sono due indicatori che di fatto misurano la quantità di dottorandi. Cose che si possono ottenere in un modo solo: pagando. E comunque hanno un impatto sulla didattica molto indiretto. L’ipotesi di chi stila la classifica è che in un ambiente confortevole, con tanti giovani dall’intelletto brillante, gli studenti siano più stimolati. Ha senso, ma ci si aspetterebbero elementi di giudizio più concreti.
Meno fumosa è la scelta di misurare il rapporto tra il numero di professori e quello degli studenti. Anche in questo caso, guadagnare punti è una questione di soldi. E poi, non è un segreto che il sistema scolastico italiano sia basato su una scarsa frequenza alle lezioni ed esami preparati a casa o in biblioteca. Il numero di docenti, a queste condizioni, è meno importante che in altri Paesi.
Non c’è nulla nel Times Higher Education Ranking che possa aiutare a capire se sia meglio il modello anglosassone – che punta sulla partecipazione, su laboratori, progetti, test a risposta multipla (cioè a crocette), ed esami scritti spesso abbastanza brevi -, oppure quello italiano, che per molte facoltà ruota ancora intorno a lunghi esami orali e migliaia di pagine da capire e memorizzare. Un sistema forse vecchio. Ma se gli atenei stranieri sono invasi dai nostri cervelli in fuga, qualcosa di buono deve averlo. Il THE, purtroppo, non aiuta a sciogliere il dubbio.
twitter@pfrediani
Ocse Education at Glance 2011
Ocse Education at Glance 2011