Più che uno Stato di diritto, uno Stato “in attesa” di diritto, come titoliamo anche sul nostro ultimo numero di Adista Notizie, uscito ieri. È lo Stato della Città del Vaticano, al centro negli ultimi giorni di analisi, schede, approfondimenti di natura giuridica su tutti i principali organi televisivi e di stampa a causa dell’affaire in cui è coinvolto l’aiutante di camera di Benedetto XVI in custodia cautelare dal 25 maggio scorso. Ma quello che (quasi) nessuno ha messo in evidenza è che il caso di Paolo Gabriele riapre la questione più generale delle “procedure” e delle “garanzie” offerte dal sistema giudiziario dello Stato della Chiesa, per l’anomalo uso della carcerazione preventiva (comune però a molti Paesi, primo tra tutti proprio l’Italia); l’arretratezza del sistema giudiziario vaticano, fermo a più di un secolo fa, con i magistrati designati e stipendiati dal potere esecutivo; il fatto stesso che lo Stato della Città del Vaticano sia una teocrazia in cui tutto discende dal papa, e tutto converge verso di lui; che il reato contestato a Gabriele, inizialmente la violazione della corrispondenza di un Capo di Stato, che equivale ad attentato alla sicurezza dello Stato (fino a 30 anni di carcere), sia ora “semplicemente” furto aggravato (fino a sei anni di reclusione più una multa).
Per Francesco Zanchini, professore emerito di Diritto Canonico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo e avvocato della Rota vaticana, il nodo sta soprattutto nella giustizia penale. «Mi riferisco anzitutto – afferma Zanchini in un’intervista alla nostra agenzia – all’uso terroristico della carcerazione preventiva (croce e delizia di tutte le procure di questo mondo, ma negli ordinamenti democratici garantisticamente circoscritta) al fine di ottenere la confessione dell’arrestato. Nello Stato della Città del Vaticano il papa regna, ma non governa. Polizia e promotore di giustizia [l’equivalente del nostro Pm, ndr] sono emanazione diretta della governance, che decide quando (ma accade quasi sempre) valersi degli organi corrispondenti dello Stato italiano per la repressione dei delitti commessi nella Città Leonina, in base all’art. 23 del Trattato del Laterano: delega di giurisdizione comodissima, date le dimensioni funzionali della magistratura interna. A tale delega la governance può però a sua discrezione rinunciare, quando il processo potrebbe portare alla luce qualche scorrettezza politico-amministrativa (i panni sporchi si lavano in famiglia). Su questo punto consultazioni immediate, quando il caso è delicato, si svolgono tra polizia interna (formata di solito da ex carabinieri e simili) e promotore di giustizia, non senza intervento del Governatorato. La valutazione, in tali casi, diretta all’uso o meno della delega esterna, è dunque squisitamente politico-discrezionale, fino al livello, del resto nobilissimo, della ragion di Stato».
Così, afferma Zanchini, se in Vaticano qualcuno ruba, la questione di per sé può anche essere irrilevante: il problema «si pone solo quando qualcuno si mette in testa di dare fastidio a chi comanda per davvero, che è l’apparato di governance, finché il papa lo mantiene in carica. Allora sì, sono dolori».
5 Giugno 2012