In questi giorni di massacro finanziario è forse utile spiegare da cosa dipende la sostenibilità del debito.
Fino a pochi mesi fa credevo che le tasse, di Berlusconi prima e di Monti poi, avrebbero dato allo Stato-vampiro sufficiente liquidità per stabilizzare il debito almeno nel breve termine. Ciò avrebbe comportato, credevo, un collo dell’economia reale tramite “repressione finanziaria” e “crowding out”, per via dello spostamento dei risparmi dal settore privato al settore pubblico, ma avrebbe dovuto ridurre gli spread.
Ero insomma vittima dello stesso errore di chi vede la sostenibilità di un debito dai flussi di cassa odierni. Eppure, quando si parla di spread, si intende la probabilità di fallimento a dieci anni, non a dodici mesi. Dunque una politica che aumenta le tasse ha un temporaneo effetto positivo (per le casse statali) perché aumenta la liquidità dello stato a danno di quella della società, ma un effetto negativo nel lungo termine perché riduce ancora di più la competitività delle imprese e la capacità di crescita dell’economia. La domanda corretta per capire lo spread è cosa succederà fino al 2022, non fino al 2013.
Il deficit è la differenza tra uscite (spese) ed entrate (soprattutto tasse) dello Stato. Per spendere più di quanto si incassa occorre emettere debito, che dunque è la somma dei deficit passati, più gli interessi. Il costo del debito, inter alia, dipende dal rischio che il debitore fallirà senza ripagarlo: più il debito è alto, e più il debitore è a rischio, più si pagano interessi, che si sommano alla spesa pubblica.
Si capisce che il debito è sostenibile se sia il debito che il deficit sono bassi, oppure se l’economia cresce molto. L’Italia ha un debito enorme, un deficit ‘medio’, e un tasso di crescita potenziale bassissimo. Inoltre, la crisi economica che sta ricominciando farà sì che nei prossimi anni la crescita sarà sotto il potenziale, rendendo ancora più difficile il controllo del debito. Infine, al debito pubblico vanno aggiunte le ‘passività contingenti’ legate alle garanzie pubbliche sulla finanza, cioè i soldi che i contribuenti regalano alle banche per evitarne il fallimento: in Irlanda e Spagna queste passività hanno creato problemi seri.
Il deficit riduce la quantità di risorse disponibili per gli investimenti, danneggiando la crescita economica. Inoltre lo stock di debito aumenta il rischio del paese, aumentando la spesa per interessi (spread maggiori). Il maggiore rischio si ripercuote su tutta l’economia, perché dare soldi ad un’impresa italiana è più rischioso se c’è il rischio che lo Stato Italiano crolli sotto il suo enorme peso. C’è quindi la possibilità di una reazione a catena che a partire da elevato debito e bassa crescita, produce ancora più debito e ancora meno crescita. Per superare questo problema occorrono serie riforme per recuperare il differenziale di tasso di crescita, e per ridurre la spesa pubblica.
La crescita è un tema complicato, che non c’entra nulla con la ‘macroeconomia’ ma richiede efficienza nell’uso delle risorse, capacità di innovare, e disponibilità di risorse produttive. È danneggiata dalla spesa pubblica improduttiva ed inefficiente, dagli eccessi di debito, ma soprattutto da questioni come la burocrazia, le tasse, la ‘fiducia reciproca’, lo ‘stato di diritto’, e altri fattori in cui l’Italia è debole perché ha uno Stato che pensa solo a succhiare risorse al settore produttivo.
Purtroppo è politicamente molto più facile lasciare la spesa pubblica inalterata, o far finta di tagliarla come sta facendo l’attuale governo, aumentare le tasse (cosa che danneggia persistentemente la crescita economica) o farsi salvare da qualche istituzione internazionale come l’IMF o l’ESM.
Pietro Monsurrò