Ed abbiamo raggiunto quota 123, che non è lo spread tra titoli del debito pubblico italiano e gli equipollenti tedeschi, ma il debito pubblico del nostro paese rapportato al prodotto interno lordo.
Tanto per capire, quando il mai sufficientemente compianto Padoa Schioppa lasciò il dicastero, lo stesso rapporto era fermo al 103%.
Il giudizio (negativo) dei mercati è rivolto anche alla pretesa insostenibilità del debito pubblico italiano.
La correttezza di un simile giudizio, però, potrebbe a buon titolo essere contestata. Non si è mancato di osservare, infatti, come, nonostante l’ingente fardello del debito pubblico italiano, il nostro paese possa vantare una ricchezza finanziaria familiare pari al 175% del prodotto interno lordo, quindi ampiamente superiore rispetto al debito dello stato.
Prima di cadere in disgrazia, l’ineffabile Ministro Tremonti aveva sibillinamente esposto questa verità, non volendo trarre le conseguenti conclusioni. Conclusioni che in tempi di crisi emergenziale e di evidente svolta a sinistra nella politica europea rischiano di esser facilmente tratte: se il tesoro della ricchezza privata è così ingente, perché non utilizzarlo per ridurre il debito pubblico italiano?
A sinistra una tale suggestione ha un nome, tassa patrimoniale, e un motivo, la pretesa punitiva implicita di una simile imposta, che punirebbe, par di capire, gli avidi e profittatori, ovvero i responsabili della crisi finanziaria. Allo stesso modo il neo presidente della Repubblica francese ha ben pensato di mantener fede alla parola elettorale appioppando ai contribuenti francesi una bella aliquota del 75%: così imparate a guadagnare!
Alle nostre latitudini non ci meravigliamo poi molto: la fiera delle corbellerie pare riscuota sempre il tutto esaurito, e qualche politicante plaudente e suggestionabile lo si trova facilmente nell’emiciclo parlamentare. E tra le forze extra-parlamentari, in attesa di uno sbarco sfavillante ed in prima classe a Montecitorio, non mancano suggestionabili al mito dell’imposta patrimoniale come Luca Cordero di Montezemolo, che l’associa, par di capire, al suo esatto contrario, l’invocata riduzione del perimetro dello stato.
D’altronde simili fantasticherie rispondono ad un’antica logica: posto che i beati possidentes sono assai pochi, ed ancor di meno, in Italia, quelli noti al fisco e quindi tassabili, e posto che in democrazia, insegnava Plinio il Giovane, i voti si contano e non si pesano, le campagne elettorali sono da sempre terreno fertile per simili proclami.
Gli errori, ed i danni, di simili proposte dovrebbero essere evidenti, se solo si ragionasse a mente fredda. E, ancor più grave, non si tratta di scelte inevitabili, posto che sarebbe ben praticabile una via alternativa alla bancarotta dello stato.
I motivi che ci paiono insuperabili contro l’introduzione di una patrimoniale supplementare son presto detti.
Non si tratta solo dell’illusione di una patrimoniale straordinaria, modello tassa per l’Europa. Le patrimoniali non possono essere straordinarie perché sono utilizzate per evitare di ridurre la spesa dello stato, e per rifinanziarla. Continuando a dar ragione a quel rompiscatole di Leo Longanesi, per il quale “la miseria italiana è la grande scusa che permette al governo di gettar via i denari”.
Se il motore della macchina pubblica consuma troppo, la patrimoniale è solo qualche tanica di benzina, pagata più o meno a buon mercato, che non risolve il problema della cilindrata di quel motore. Che è il problema della riforma della nostra macchina pubblica, riducendone i cilindri.
Imponendo una patrimoniale non si farebbe altro che agire come sempre si è agito con la logica delle manovre finanziarie: si cerca nelle pieghe del bilancio, salvo poi spigolare qualche risorsa aggiuntiva al contribuente, per far quadrare il conto, ovvero per cercare di coprire, salvo poi non riuscirci mai, i conti che non tornano. E così si emettono i titoli di stato, irrispettosi del principio a suo tempo affermato da David Ricardo per cui debiti oggi, tasse domani. Tanto che oggi lo stato è diventato il socio di maggioranza di molti contribuenti.
L’alternativa alla patrimoniale è solo una: mettere sul mercato beni e partecipazioni posseduti dallo stato, istituendo per il ricavo un patrimonio destinato ad uno specifico affare: l’abbattimento del debito pubblico, con espresso divieto di utilizzare quelle risorse per coprire l’attuale fabbisogno. Così facendo, e preparando un piano di dismissioni pluriennale, si solleciterebbero su basi volontarie i risparmiatori, e non solo quelli italiani, ad acquistare quelle partecipazioni e quei beni sulla base di un atto volontario, contrattuale e come tale libero. Una bella differenza rispetto all’esproprio forzoso di un’imposta, l’ennesima, invocata in preda all’emergenza.
Una simile operazione liquidatoria dovrebbe avvenire, però, con qualche avvertenza. Si evitino i marchingegni già adoperati nel recente passato, impacchettando tutto in società veicolo da piazzare agli acquirenti. Le operazioni di cartolarizzazione ci paiono assai poco trasparenti, oltre che poco di moda, e rischiano solo di esser buone per qualche fattucchieria di bilancio.
Se proprio si vuol prendere dal passato un esempio encomiabile, ricordiamoci – come ci invitava a fare Natale d’Amico, già sottosegretario alle Finanze – di come la neonata Repubblica gestì la dismissione dei residuati bellici. Il governo Parri nominò Ernesto Rossi al vertice dell’ARAR (Azienda Rilievo Alienazioni Residuati) col compito di vendere sul mercato, pezzo per pezzo, i beni residuati di guerra. L’operazione durò quasi tre lustri, e venne condotta con trasparenza e con dirittura da quel galantuomo di Rossi, con evidente vantaggio per le casse dello stato.
Di uomini capaci di una simile intrapresa se ne trovano, basterebbe la volontà di percorrere una strada alternativa a quella facile, ed assai battuta, della tortura dell’esangue contribuente.
Ricordiamoci, come cittadini, di un vecchio insegnamento del liberale von Mises: i governi diventano liberali solo quando vi sono costretti dai cittadini.
L’alternativa, soprattutto per i ministri delle Finanze, è quella di correre il rischio di finire come Giuseppe Prina, l’ultimo ministro delle Finanze ad esser linciato dalla folla nel 1814.