“Non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi” (Deuteronomio, cap. 5, verso 8)
Nella discussione se sia stato opportuno o meno riconoscere la condizione di sanità mentale a Anders Behring Reivik, l’ideatore ed esecutore della strage di Utoya (77 morti) molti hanno sottolineato che in questo modo si è evitato di trattare un problema politico come un caso clinico. Sono d’accordo. Io però aggiungerei anche qualcos’altro.
Molte delle vittime della strage di Utoya sono morte con un proiettile entrato dalla bocca, uccisi mentre emettevano un grido. Non so cosa pensassero fino all’11 luglio 2011 i visitatori che al Munch Museet di Oslo si ponevano di fronte a “L’Urlo” il celebre quadro di Edward Munch. Ci sono opere che talora hanno la forza non solo di assumere la dimensione di una terrificante profezia, ma anche quella di obbligare chiunque le guardi a non pensare se non una sola scena e ci sono società traumatizzate che possono indulgere a farsi rappresentare da una sola istantanea, ovvero a non reagire rispetto alla condizione di terrore e di orrore che hanno provato. Anzi di fare di quel terrore e di quell’orrore, la propria dimensione di quotidianità.
La sentenza di venerdì scorso dice che una società è stata in grado di guardare quella scena, percepirla come uno strappo irreversibile ma anche di reinvestire su se stessa. Evitando di soggiacere al fascino terrificante de “L’Urlo”, ma di assumerlo e di sfidarlo. Di tornare a guardare quel quadro, senza farsi risucchiare e allo stesso tempo non cercare né palliativi né scusanti.
Ovvero, insieme al dolore, trovare la forza di curare le proprie ferite, battendo la via della responsabilità, evitando di ridurla e di tradurla in un “coup de théâtre” o di sussumerla in un’ “opera d’arte”. Più precisamente di non fare di un’immagine un idolo.